Recap: gennaio 2017

Il nuovo anno è appena iniziato; musicalmente, però, gennaio si conferma mese di grandi uscite. Infatti, dopo che il 2016 aveva visto la pubblicazione dell’album di addio di David Bowie, gennaio 2017 vede il ritorno di artisti molto importanti ed apprezzati da pubblico e critica. Abbiamo infatti il nuovo CD del duo rap Run The Jewels; il ritorno dei Cloud Nothings; il terzo album dei redivivi xx; e il grande Brian Eno ha pubblicato una nuova suite di musica ambient! Insomma, le attese erano alte per tutti e quattro i CD. E non sono state certamente deluse. Ma andiamo con ordine.

Run The Jewels, “Run The Jewels 3”

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Il terzo CD del duo formato da El-P e Killer Mike è il loro migliore, quello più coeso e stilisticamente più coinvolgente. Non una cosa facile da ottenere, dato che tutti i lavori del duo sono molto riusciti: se il primo “Run The Jewels” era fondamentalmente spassoso e divertente, “Run The Jewels 2” era pura rabbia sociale. Possiamo dire che la trilogia si conclude con un LP che prepara la rivolta; o che, almeno, si candida fortemente a farle da colonna sonora. Se infatti i nomi degli album e le copertine cambiano per minimi particolari, nei testi e nelle sonorità El-P e Killer Mike sono cangianti come pochi. Qua sono privilegiate basi potenti e opprimenti: ricordano un poco il Danny Brown di “Atrocity Exhibition” (2016), tanto che Brown è anche ospite nella bella Hey Kids (Bumaye). Altri bei brani sono le iniziali Talk To Me e Legend Has It, dove la critica al neo-presidente americano Donald Trump è marcata; ma anche la conclusiva A Report To The Shareholders/ Kill Your Masters è eccellente. L’unico brano debole è Everybody Stay Calm, ma è un peccato veniale in un’opera davvero ottima. Insomma, cari “masters” (questo il nome affibbiato all’establishment dal duo), c’è poco da stare tranquilli: il disagio è diffuso e sta per esplodere. I RTJ ne sono a conoscenza e in Thieves! (Screamed The Ghost) hanno anche ripreso le parole del grande Martin Luther King per sottolinearlo: “a riot is the language of the unheard”. Un manifesto politico di rara efficacia.

Voto finale: 8,5.

The xx, “I See You”

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Il terzo lavoro del trio inglese si è fatto attendere per ben cinque anni: risale infatti al 2012 “Coexist”. Tutti iniziarono ad apprezzare gli xx fin dall’esordio, l’eponimo CD del 2009 che conteneva le hit Intro, Basic Space e Crystalised. Questo “I See You” arriva a due anni dal primo LP solista di Jamie xx, il magnifico “In Colour”, un concentrato della miglior musica elettronica passata e presente. Le influenze club sono evidenti in “I See You”, ma gli xx riescono contemporaneamente a mantenere le proprie radici di band indie pop, con strumentazione minimale e le voci di Oliver Sim e Romy Madley-Croft più mature e affascinanti come sempre nei loro scambi. Alcune canzoni stonano con il passato della band (A Violent Noise e Dangerous), ma non dobbiamo pensare che l’intero lavoro sia puramente elettronico. Abbiamo infatti anche Say Something Loving e la conclusiva Test Me, che mantengono intatto il nucleo del suono xx, seppur con più ritmo e movimento. Le voci eteree presenti in Lips sembrano prese da un film di Sorrentino; On Hold invece è il singolo più commerciale, ma non per questo inferiore. Menzione finale per Brave For You, composta da Romy per la madre morente: un pezzo toccante e molto espressivo. Insomma, non un lavoro perfetto e coeso stilisticamente, ma senza dubbio un importante passo in avanti nella discografia degli xx, finalmente usciti dal loro guscio e pronti a spiccare il volo verso lidi sonori fino a poco tempo fa inesplorati. Sì, ci erano proprio mancati.

Voto finale: 8.

Cloud Nothings, “Life Without Sound”

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I Cloud Nothings sono ormai giunti al quarto album di inediti, escludendo quello con i Wavves del 2015. Dylan Baldi & co. si sono imposti come una formazione imprescindibile nella scena indie rock: la collaborazione di Steve Albini (già produttore dei Nirvana) ha contribuito, nel corso degli anni, ad affinare il sound del gruppo. Partiti da una marcata vicinanza al pop-punk di Green Day e Blink-182, i Cloud Nothings già in “Attack On Memory” (2012) hanno virato verso un punk feroce, ma contemporaneamente orecchiabile. Baldi canta la rabbia dei suoi coetanei per una società che sembra non curarsi di loro (emblematici i titoli No Future/No Past e Wasted Days). In “Here And Nowhere Else” (2014) la band aveva deciso di calcare gli stessi territori, con risultati sempre ottimi (basti ricordare I’m Not Part Of Me e Quieter Today, oltre a Psychic Trauma). L’album della verità, questo “Life Without Sound”, viaggia su binari leggermente diversi: a piccoli passi, la band si porta verso un rock più orecchiabile e meno urlato. Ne sono esempi i singoli Modern Act e Enter Entirely, efficaci pur essendo più “commerciali”. Altri ottimi brani sono Up To The Surface e Internal World. Meno riuscita Strange Year. In generale, possiamo dire che ormai la formula è conosciuta, ma i Cloud Nothings rimangono comunque una band imprescindibile per gli amanti del rock contemporaneo.

Voto finale: 7,5.

Brian Eno, “Reflection”

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Il leggendario artista britannico Brian Eno, padre della musica ambient, ci delizia per l’ennesima volta con “Reflection”, suo ventiseiesimo (!) CD. Il lavoro è una lunga suite di musica ambient, della durata complessiva di 54 minuti, ammaliante ed ipnotica nelle sue parti migliori. Certo, qualcuno potrà dire che sono lontani i tempi del capolavoro “Another Green World” (1975), ma di sicuro è da elogiare la spinta creativa che ancora oggi ha il Maestro, il quale (ricordiamolo) ha pubblicato l’anno passato un’altra pregevole raccolta di inediti, “The Ship”. In poche parole, possiamo dire che la presenza di Brian Eno ha ancora una funzione fondamentale nel panorama della musica elettronica moderna: ricordare che si può invecchiare con grazia e classe, non rinunciando mai a sperimentare e a creare Arte con la A maiuscola.

Voto finale: 7.

“Heroes”, il capolavoro di David Bowie

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Una foto di David Bowie risalente al periodo berlinese.

Siamo nel 1977: David Bowie si è trasferito a Berlino per sfuggire all’autodistruzione del periodo americano, dove (parole sue) andava avanti nutrendosi di latte, peperoncini e… cocaina. Insomma, una dieta piuttosto dannosa per il fisico di qualsiasi essere umano. Ma non, musicalmente parlando, per il Duca Bianco: in America compose album ormai cult come “Young Americans” (1975) e il magnifico “Station To Station” (1976).

Dopo il tour seguito a quest’ultimo lavoro, Bowie decise dunque di tornare in Europa, ma non in Gran Bretagna, il suo paese natale. Lui, affascinato dalla cultura tedesca (anche da Hitler), pensò che ritrovare pace e serenità proprio nel cuore del continente gli sarebbe servito a rimettersi in sesto e mantenere l’ispirazione febbrile di quegli anni. Lì nacque, con la collaborazione di Brian Eno, il padre della musica ambient, la celeberrima “trilogia berlinese”. Bowie ed Eno collaborarono infatti in tre dei CD più importanti degli anni ’70, vale a dire “Low”, il già citato “Heroes” (entrambi del 1977) e “Lodger” (1979).

David Bowie era all’apice della creatività e della capacità di mescolare generi in maniera ardita come quasi nessuno aveva fatto fino a quel momento: funk, rock, elettronica, soul… Tutto si ritrova perfettamente calato nella trilogia berlinese. Se “Low” è caratterizzato da brani velocissimi nella prima parte e suite elettroniche nella seconda, rigidamente divise, in “Heroes” troviamo le due componenti più equamente distribuite. Perso l’effetto sorpresa della collaborazione con Eno, David stupisce il pubblico e la critica con la chiamata di Robert Fripp, già nei King Crimson. Le sue schitarrate rendono l’album magnifico strumentalmente; la perfetta voce di Bowie fa il resto.

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L’iconica copertina di “Heroes”.

Ma parliamo delle canzoni: gli amanti del rock saranno pienamente soddisfatti da pezzi magnifici come Beauty And The Beast e Joe The Lion. La title track, beh, non ha bisogno di presentazioni: anche chi odia Bowie non può non inchinarsi di fronte alla limpida bellezza di Heroes, un inno per i più sfortunati e per chi non molla mai, nemmeno di fronte alle peggiori avversità. Può di diritto essere eletto miglior canzone rock del decennio.

Gli amanti del Bowie più sperimentale, tuttavia, non possono dirsi delusi: la seconda parte di “Heroes” traccia il percorso per molta della musica elettronica che verrà. Ricordiamo in particolare V-2 Schneider (già nel titolo tributo ai Kraftwerk) e Moss Garden. I 40 minuti del CD sono poi suggellati dall’ammaliante The Secret Life Of Arabia, sottovalutata ma davvero riuscita.

A 40 anni dall’uscita, “Heroes” mantiene intatto il suo fascino: ascoltandolo, si capisce pienamente l’importanza della figura del Duca Bianco per la musica moderna e la perdita subita il 10 gennaio 2016, giorno della sua morte. Il CD si staglia, non a caso, come uno dei capisaldi della discografia bowieana.

Voto finale: 9.