Recap: ottobre 2016

Accanto a gruppi di successo, ma che hanno prodotto album ampiamente dimenticabili (Two Door Cinema Club e Kings Of Leon su tutti), ottobre ha portato degli importanti ritorni sulla scena musicale. In particolare, il nostro recap si concentra su tre di questi: il terzo lavoro della sorellina di Beyoncé, Solange; il quattordicesimo CD di inediti della leggenda Leonard Cohen; e il primo LP da quattro anni a questa parte dei redivivi Green Day.

Solange, “A Seat At The Table”

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Questo 2016 è stato caratterizzato da una buona quantità di CD che trattavano dei problemi razziali tra neri e bianchi negli Stati Uniti, mescolando grande musica e impegno civile. In particolare ricordiamo Blood Orange e il suo “Freetown Sound”; altri grandi album di musica nera sono quelli di Chance The Rapper e Beyoncé. Proprio la sorella minore di Queen Bey, Solange, con il suo terzo lavoro “A Seat At The Table” ha prodotto un notevole CD di pura black music, mescolando sapientemente R&B, funk e soul, rifacendosi ai pilastri del passato (James Brown, Michael e Janet Jackson, Prince soprattutto), con una spruzzata di elettronica in Don’t You Wait. La voce della più giovane delle sorelle Knowles ricorda molto quella di Bey; le liriche trattano prevalentemente il tema dell’essere una donna afroamericana oggi, con tutto ciò che ne consegue in termini di discriminazione, ma anche di orgoglio e senso di appartenenza. Ricordiamo in particolare F.U.B.U. (cioè For Us, By Us) e l’iniziale Rise tra i brani migliori; ottimi anche Cranes In The Sky e Where Do We Go. Molto raffinata, infine, Mad. Gli unici difetti di “A Seat At The Table” sono l’eccessivo numero di canzoni e la numerosità degli intermezzi, che rompono troppo spesso il fluire dei beat. In generale, però, Solange ha dimostrato che il talento in casa Knowles non è appannaggio solo della sorella maggiore.

Voto finale: 8,5.

Leonard Cohen, “You Want It Darker”

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La leggenda canadese del folk e del rock Leonard Cohen, con il quattordicesimo album di inediti, ha nuovamente sconvolto i suoi fans. “You Want It Darker” sembra in effetti un testamento musicale, un ultimo regalo a pubblico e critica fatto di melodie raccolte e un tono di voce più cupo che mai. Cohen si era già preso delle pause dall’attività artistica: la prima, di nove anni, fra “The Future” (1992) e “Ten New Songs” (2001); la seconda fra “Dear Heather” (2004) e “Old Ideas” (2012). Questa volta però, anche considerando le liriche delle 9 canzoni che compongono “You Want It Darker”, la pausa sembra essere definitiva. Nella title track, Cohen canta “I’m ready, my Lord”; in Leaving The Table canta invece “I’m leaving the table, I’m out of the game”. Musicalmente parlando, le melodie non sono orecchiabili e tantomeno sono ballabili, come nella gran parte dei precedenti CD di Leonard Cohen. D’altro canto, l’eleganza di brani come la title track e If I Didn’t Have Your Love non lascia indifferenti. In generale, vale lo stesso discorso fatto per David Bowie dopo l’uscita di “Blackstar”: non sarà il miglior LP della produzione di Leonard Cohen, ma rappresenta un magnifico modo di dire addio ai fans di una carriera davvero leggendaria. Speriamo che il finale sia diverso da quello messo in scena dal Duca Bianco lo scorso gennaio; certo è che Leonard Cohen sembra un uomo in pace con sé stesso, pronto a vedere cosa c’è dopo questa vita. E non è una cosa da poco.

Voto finale: 8.

Green Day, “Revolution Radio”

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A quattro anni dalla controversa trilogia di “¡Uno!”, “¡Dos!” e “¡Tré!” e dopo varie sventure che hanno perseguitato i membri della band, tra cui il cantante Billie Joe Armstrong in rehab e il tumore, per fortuna vinto, che ha colpito la moglie del bassista Mike Dirnt, i Green Day sono finalmente tornati a produrre musica. La domanda può sorgere spontanea: l’ultimo grande CD del gruppo punk californiano risale al 2004 (l’ormai classico “American Idiot”), c’è ancora senso per i Green Day di esistere nel 2016? Ebbene, i risultati di “Revolution Radio” non raggiungono le vette di “Dookie” o del già citato “American Idiot”, ma lo spirito combattivo e l’impegno civile dei Green Day elevano il voto finale. Accanto a brani un po’ confusi come Forever Now, abbiamo infatti buoni highlights come Somewhere New (che richiama gli Who) e Outlaws; apprezzabile anche il singolo Still Breathing. Più prevedibile l’altro singolo, Bang Bang, che però ha dalla sua un testo molto bello; la conclusiva Ordinary World è molto simile a Good Riddance, una delle più amate canzoni del repertorio di Armstrong & co., ma non ha la stessa delicata bellezza. Insomma, niente di che, ma, rispondendo alla domanda iniziale, possiamo dire che i Green Day, anche nel 2016, hanno ancora un senso.

Voto finale: 7.

Il superbo ritorno di Bon Iver e Nicolas Jaar

Il 30 settembre scorso è stato un giorno da ricordare per gli amanti della musica: sono usciti contemporaneamente i due nuovi, attesissimi lavori di Bon Iver e Nicolas Jaar, entrambi assenti dalla scena musicale da ben cinque anni. Analizziamone i risultati: come anticipazione, basti dire che nessuno dei due ha deluso le aspettative.

Bon Iver, “22, A Million”

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Dopo un capolavoro come “Bon Iver, Bon Iver” del 2011, Justin Vernon (il leader del progetto Bon Iver) si è preso del tempo per sé stesso, organizzando un nuovo festival musicale nella sua città natale, Eaux Claires, e seguendo la sua nuova creatura musicale, i Volcano Choir. Del resto, lui ha sempre detto che le canzoni vanno “sentite” nel cuore e che scrivere solo per accumulare denaro non fa per lui. Promessa mantenuta: il marchio Bon Iver ha prodotto solamente tre album e un EP in nove anni di vita. Pochi ma buoni, anzi ottimi: ogni passo della carriera di Vernon è sempre stato un viaggio magnifico, sia che fosse concentrato sui sentimenti del protagonista (come l’esordio “For Emma, Forever Ago” del 2007), sia che ci conducesse in località a volte vere, a volte immaginarie (come accadeva in “Bon Iver, Bon Iver” del 2011). Sembrava che ormai Bon Iver fosse qualcosa del passato, invece quest’anno Vernon ha deciso di resuscitare la band; e i risultati sono di nuovo magnifici.

Già l’inizio è promettente: 22 (OVER S∞∞N) ricorda le atmosfere dei suoi precedenti lavori, risultando in un folk gentile e raffinato, mentre la potente 10 d E A T h b R E a s T rimanda addirittura al Kanye West di “Yeezus”. Abbiamo poi l’affascinante intermezzo di 715 – CRΣΣKS, che sembra una riedizione di quella Woods che era stata ripresa anche da Kanye in “My Beautiful Dark Twisted Fantasy”.

Due cose risultano quindi evidenti: la numerologia, apparentemente casuale, che precede ogni canzone; e i forti rimandi alla discografia di Kanye West, che più volte ha elogiato Vernon e il suo modo di scrivere, non a caso. Sono però presenti influenze anche di James Blake (non a caso i due hanno collaborato in I Need A Forest Fire) e, beh, di Bon Iver.

Queste ultime sono particolarmente evidenti in 33 “GOD” (qua sì che la numerologia ha senso) e 29 #Strafford APTS, non a caso fra i brani migliori del disco. Il capolavoro vero è però 666 ʇ, che possiede una sezione ambient da brividi, così come la bella 8 (circle). Il solo brano non completamente a fuoco è ____45_____, mentre la conclusiva 00000 Million ricorda molto la Beth/Rest che chiudeva “Bon Iver, Bon Iver”. Notiamo che la prima parola e l’ultima della tracklist compongono proprio il titolo del CD; una coincidenza? Difficile da credere. I testi sono quanto mai criptici: si possono leggere riferimenti alla fede e all’amore, ma sempre slegati dal contesto, quasi che Justin voglia evidenziare come anche la nostra epoca sia confusa (i titoli dei brani sono piuttosto misteriosi) e come noi stiamo perdendo i riferimenti che un tempo ci sostenevano (l’amore e la fede, appunto).

In conclusione, in sole dieci canzoni e 34 minuti di durata, “22, A Million” ci conferma lo sconfinato talento di Justin Vernon e ci fa bramare per avere al più presto nuova musica da parte sua. Pur non raggiungendo il fantastico risultato del precedente LP “Bon Iver, Bon Iver”, anche questo album entrerà sicuramente nella top 10 dei migliori album del 2016. Ed è successo con tutti e tre i suoi CD… Bentornati, Bon Iver.

Voto finale: 9.

Nicolas Jaar, “Sirens”

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Può la musica elettronica diventare un mezzo per esprimere un messaggio politico? Fino a pochi anni fa la risposta sarebbe stata sicuramente negativa; poi, nel 2012, la cantante canadese Claire Boucher (in arte Grimes) divenne un simbolo narrando in Oblivion (2012) la violenza subita alcuni anni prima. Poi, nel 2016, ecco la vera svolta: prima Antony Hegarty (in arte Anohni), cantante degli Antony and the Johnsons, si scagliava contro la guerra, ma anche contro chi nega il cambiamento climatico e chi violenta le donne nel suo album di esordio “Hopelessness”, uscito a maggio, dove le basi di Hudson Mohawke e Oneohtrix Point Never prendevano il posto del pop da camera che caratterizzava il sound della band di Hegarty. Adesso anche Nicolas Jaar, giovane speranza della scena elettronica statunitense, cerca di trasmettere messaggi universali mediante un CD di musica elettronica.

“Sirens” è solamente il secondo disco vero e proprio della carriera di Nicolas Jaar: nel precedente “Space Is Only Noise” (2011) aveva fatto gridare al miracolo per la sua naturale capacità di mescolare ambient e dance, in un raffinato mix di brani eterei e altri più carichi. Nei successivi cinque anni, Nicolas non è stato con le mani in mano: ha creato una colonna sonora alternativa per un vecchio film russo (“Pomegranates”) e registrato un album sotto il nome Darkside (“Psychic” del 2013), assieme all’amico Dave Harrington. Nel nuovo lavoro, Jaar non cambia una formula che si era rivelata vincente, limitandosi ad affinarla; le novità più gustose risiedono nei testi delle sei canzoni che compongono “Sirens”.

Già nella prima canzone in scaletta, la misteriosa Killing Time, Jaar inizia subito a farci capire come la pensa riguardo all’economia: “money, it seems, needs its working class”. Abbiamo poi la potente The Governor, dove le origini cilene del nostro vengono prepotentemente alla luce: i richiami alla feroce dittatura di Pinochet sono forti nei versi “we’re all just rolling, the mothers have sunk, all the blood’s hidden in the Governor’s trunk.” Il più importante momento politico risiede però in No, cantata in spagnolo da Jaar, dove oltre a una sua conversazione con il padre Alfredo abbiamo la lirica “ya dijimos no, pero el si està en todo”, rimando al referendum dove i cileni decisero di votare sì alla dittatura di Pinochet, condannandosi ad anni tragici.

Musicalmente parlando, le poche tracce di “Sirens” farebbero pensare ad un LP breve, ma in realtà si superano i 46 minuti di durata; gli highlights sono la già citata The Governor e Three Sons Of Nazareth, uno dei migliori brani mai scritti da Nicolas. Insomma, stiamo parlando di uno dei più brillanti talenti della scena elettronica mondiale: “Sirens” non fa che cementarne lo status.

Voto finale: 8.

Recap: settembre 2016

Settembre 2016 sarà sicuramente ricordato come un mese pieno di importanti uscite musicali. Non a caso, ad A-Rock abbiamo deciso di analizzare non i soliti tre album dei “Recap”, bensì addirittura sei. E nessuno di questi mancherà nella classifica finale dei migliori album del 2016. Abbiamo infatti il primo lavoro dei Preoccupations (gli ex Viet Cong), lo struggente album di addio dedicato da Nick Cave al figlio piccolo morto poco tempo fa, i nuovi lavori di Angel Olsen e dei Glass Animals, il primo lavoro di Rostam Batmanglij fuori dai Vampire Weekend (in collaborazione con l’ex cantante dei Walkmen Hamilton Leithauser), in un duo non a caso chiamato Hamilton Leithauser + Rostam; e l’ennesimo buon lavoro dei Wilco, autentici veterani del rock. Ma andiamo con ordine.

Nick Cave & The Bad Seeds, “Skeleton Tree”

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Come l’anno passato Sufjan Stevens ci aveva fatto commuovere celebrando la figura della madre morta da poco di cancro, tanto da vincere la palma di miglior album del 2015, quest’anno Nick Cave ricorda il figlio 15enne morto cadendo da una rupe durante le registrazioni del CD che sarebbe diventato “Skeleton Tree”. Accompagnato dai fedeli Bad Seeds, il veterano australiano del rock alternativo e sperimentale produce un lavoro denso e complesso, come del resto era facile attendersi. Nick Cave mescola sonorità diverse fra loro, tra sperimentalismo, musica ambient e soft rock. I titoli e i testi delle canzoni sono evocativi: I Need You e la lirica “Nothing really matters”, oppure “I am calling you” in Jesus Alone e infine il verso più straziante, contenuto in Distant Sky: “They told us our dreams would outlive us, but they lied”. Nel film tratto dalla registrazione di “Skeleton Tree”, la drammaticità del momento vissuto da Cave è ancora più evidente; speriamo che aver condiviso la pena di aver perso un figlio così giovane possa alleviare la pesantezza che certamente lui e la sua famiglia portano nel cuore. Noi, umilmente, non possiamo che ringraziarlo per un altro magnifico tassello di una carriera davvero leggendaria: pezzi come la title track, Rings Of Saturn e la già citata Distant Sky sono bellissimi sia musicalmente che, come già accennato, nei loro testi. In poche parole, uno dei CD più belli e sentiti dell’anno.

Voto finale: 9.

Angel Olsen, “My Woman”

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Il terzo album della statunitense Angel Olsen è la sua definitiva consacrazione: possiamo infatti eleggere la bella Angel tra le voci femminili più importanti del panorama pop/rock contemporaneo. Inizialmente la sua musica rappresentava un buon connubio di folk, country ed indie rock. Con “My Woman”, però, il suo range sonoro si amplia: sono evidenti le influenze di Beach House, Fiona Apple e Joanna Newsom. Nel contempo, però, Olsen riesce ad aggiungere quel qualcosa in più che dà a “My Woman” un fascino tutto particolare: dal synth pop dell’iniziale Intern, passando per le lunghissime Sister (bellissimo pezzo indie) e Woman, fino ad arrivare alla conclusiva, intima Pops, la tonalità sempre cangiante della magnifica voce di Angel Olsen ci accompagna in un viaggio da cui è difficile uscire. Sembra proprio che con lei e Courtney Barnett il rock femminile abbia trovato due grandi interpreti.

Voto finale: 8,5.

Glass Animals, “How To Be A Human Being”

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Il titolo del secondo CD di inediti dei Glass Animals è decisamente impegnativo, così come del resto la loro musica, qua ricca come mai altrove di cambi di ritmo e di sound. Il loro nuovo album infatti predilige uno sperimentalismo radicale, fatto di richiami illustri a Talking Heads e Hot Chip, ma anche ad artisti più pop come Young The Giant e Imagine Dragons. Inutile dire che il quartetto originario di Oxford colpisce di più nel primo caso: già la iniziale Life Itself prepara l’ascoltatore, ma sono da sottolineare anche Season 2 Episode 3 (che prende in giro la mania di guardare continuamente serie tv), The Other Side Of Paradise e Poplar St. Qualcuno rimprovera alla band un eccessivo appiattimento sui grandi esempi che abbiamo citato prima, ma personalmente non so trovare nel panorama musicale odierno un gruppo che suona vintage e contemporaneo alla stessa maniera come i Glass Animals. In generale, “How To Be A Human Being” migliora ad ogni ascolto, facendone un CD fondamentale per chi apprezza la musica più d’avanguardia e sofisticata.

Voto finale: 8.

Hamilton Leithauser + Rostam, “I Had A Dream That You Were Mine”

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La collaborazione fra l’ex frontman dei Walkmen Hamilton Leithauser e l’ex multi-strumentista dei Vampire Weekend Rostam Batmanglij risulta in un buon CD: dieci canzoni che guardano fortemente al passato, soprattutto agli anni ’60-’70 del secolo scorso. Colpiscono positivamente soprattutto due cose: la produzione dell’album, impeccabile e ricca di particolari deliziosi (le voci alla fine di When The Truth Is… e durante 1959, il banjo in Peaceful Morning tra i migliori) e la duttilità della voce di Leithauser, mai stato così vario in un singolo album (addirittura in una canzone, come nella bella Sick As A Dog). Detto questo, come nel caso dei Wilco (continuate a leggere e vedrete cosa intendo), chi cerca invenzioni clamorose musicalmente parlando forse non gradirà troppo questo “I Had A Dream That You Were Mine”. Viceversa, gli amanti di Walkmen e Vampire Weekend ritroveranno molti tratti caratteristici delle due band: orecchiabilità, coesione sonora e rilettura dei classici, per esempio. Le canzoni migliori sono l’iniziale A 1000 Times, dolce canzone d’amore; le già citate Sick As A Dog e 1959; e Rough Going (I Won’t Let Up), quasi jazz. Il capolavoro vero però è When The Truth Is…, perfetta melodia, condita con pianoforte e strumentazione minimale, tutta farina del sacco di Rostam; la voce di Leithauser accompagna il tutto. Niente di paragonabile a “Modern Vampires Of The City” (2013), l’album della definitiva consacrazione dei VW, però certamente un LP godibile e curato, che riporta nel pieno della forma due tra le menti più creative del mondo indie americano. Una vera delizia pop d’autore.

Voto finale: 8.

Wilco, “Schmilco”

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Giunti al decimo lavoro, i Wilco, capitanati da un sempre più carismatico Jeff Tweedy, non smettono di stupire. L’anno scorso avevano fatto uscire esclusivamente su Internet “Star Wars”, con una ricezione positiva sia del pubblico sia della critica, soprattutto per la voglia di sperimentare presente nel CD (era stato inserito anche nella lista dei migliori album del 2015 di A-Rock, per quello che conta). Con “Schmilco”, ormai alla doppia cifra di LP di inediti, Tweedy e co. rileggono la storia del country e del rock americani, cercando di collegarsi ai loro maggiori successi, soprattutto al superbo “Yankee Hotel Foxtrot” (2002). Insomma, niente di innovativo (e pensare che “Schmilco” è stato composto nelle stesse sessions di “Star Wars”), ma il mestiere e l’esperienza mantengono altissimo il livello delle canzoni. Da ricordare in particolare Cry All Day, Normal American Kids e If I Ever Was A Child. Menzione finale per la buffissima copertina, che fa il paio con quella del precedente “Star Wars” (che rappresentava un gatto bianco su un divano, quindi del tutto sconnessa dal titolo): invecchiare con ironia si può, anzi si deve. Niente da dire, quindi: è proprio vero che il buon vino migliora col passare degli anni. E i Wilco, beh, sono un vino davvero squisito.

Voto finale: 7,5.

 Preoccupations, “Preoccupations”

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Teoricamente, i Preoccupations sono già una band esperta, avendo alle spalle già tre album, seppure con due nomi diversi. Dapprima, infatti, abbiamo avuto i due CD dei Women, poi quello a nome Viet Cong del 2015, un pregevole lavoro entrato nella lista dei migliori album dell’anno di A-Rock. Infine ecco questo “Preoccupations”, eponimo del nuovo nome preso dal gruppo canadese. Se il primo cambio di formazione fu dovuto ad un tragico fatto (la morte del membro fondatore Christopher Reimer), questa volta il passaggio da Viet Cong a Preoccupations è un fatto puramente “politico”. La storia però non cambia: la band rimane maestra nel suonare un punk claustrofobico ed efficace nel trattare le tematiche più complesse della vita umana. I titoli delle canzoni lo testimoniano: abbiamo l’iniziale Anxiety, poi Monotony, Degraded e via dicendo. Rispetto al precedente “Viet Cong”, però, il suono si fa più commerciale e quindi più accessibile: se da un lato ciò contribuirà ad ampliare la fanbase del gruppo, dall’altro alcune canzoni non restano impresse come accadeva nelle precedenti incarnazioni del complesso canadese (è questo il caso di Forbidden, troppo breve e poco coinvolgente). Ottima al contrario la lunghissima Memory, che flirta con la ambient music e richiama i Deerhunter delle origini. In poche parole, un buon lavoro punk, che sarà apprezzato dai fan di questo genere come anche da quelli del rock. Per chi si aspetta sperimentalismo o arditezza, meglio passare oltre.

Voto finale: 7,5.