Recap: giugno 2017

Giugno sarà ricordato come un altro mese ricco di nuova musica di alto livello. In particolare, ad A-Rock ci concentriamo sulle seguenti uscite: la collaborazione fra Sufjan Stevens, Bryce Dessner, Nico Muhly e James McAlister; il secondo CD dei Big Thief; l’attesissimo secondo LP di Lorde; il sesto lavoro dei Phoenix; il terzo CD degli Alt-J; ma soprattutto il grande ritorno dei Fleet Foxes.

Fleet Foxes, “Crack-Up”

fleet foxes

Partiamo proprio dai Fleet Foxes: il complesso di Seattle, sei anni dopo “Helplessness Blues” e dopo una pausa durata tre anni, a causa del ritorno all’università del leader Robin Pecknold, è tornata sulla scena musicale con l’attesissimo “Crack-Up”. Beh, i risultati sono semplicemente eccezionali.

Fin dai titoli dei brani in scaletta capiamo che i Fleet Foxes hanno radicalmente innovato il loro sound: essi infatti contengono spesso due o tre denominazioni diverse, quasi a voler rimarcare la mutevolezza e progressione possibili non solo nell’intero CD, ma nelle singole canzoni. Ne è un chiaro esempio l’epica traccia iniziale, I Am All That I Need / Arroyo Seco / Thumbprint Scar: partenza lenta, parte centrale trascinante e finale raccolto. Ma questa è una caratteristica propria di molti brani del disco: se nell’esordio i Fleet Foxes erano noti per le loro melodie ariose, semplici e cantabili, in “Helplessness Blues” già si iniziavano ad intravedere cambiamenti importanti nel loro sound (basti pensare alle lunghissime The Plains / Bitter Dancer e The Shrine / An Argument), giunti a compimento in “Crack-Up”.

Oltre al magnifico brano iniziale, abbiamo almeno un’altra melodia complessa ma bellissima: il primo singolo Third Of May / Ōdaigahara, che finisce quasi con un sottofondo ambient. Molto bello poi anche il secondo brano utilizzato dalla band per promuovere il disco, Fool’s Errand: inizia come un tipico brano dei Fleet Foxes prima maniera, per poi finire con un morbido pianoforte che rende la conclusione davvero magica. Non che i pezzi più semplici siano disprezzabili: ad esempio, eccellente la breve – Naiads, Cassadies. Per contro, Cassius, – flirta con l’elettronica soft, arricchendo ulteriormente il ventaglio sonoro dei Fleet Foxes; infine, la conclusiva title track ricorda quasi gli Animal Collective, per poi terminare dolcemente.

Se avevamo bisogno di una conferma del talento compositivo di Pecknold & co., questo “Crack-Up” rende minore anche un mezzo capolavoro come l’esordio “Fleet Foxes” del 2008: melodie così dense e ricche di cambiamenti in un album folk non sono banali, tanto che viene quasi da parlare di progressive folk. “Crack-Up” resterà senza dubbio come uno dei migliori album non solo del 2017, ma dell’intero decennio.

Voto finale: 9.

Lorde, “Melodrama”

lorde

Avevamo lasciato Lorde (nome d’arte della giovanissima neozelandese Ella Marija Lani Yelich-O’Connor) al grande successo di “Pure Heroine” (2013) e alla famosissima Royals. Il seguito di questo fortunato CD si è fatto attendere ben quattro anni, ma l’attesa è servita a Lorde per maturare definitivamente, come donna e come artista, generando un lavoro eccellente come “Melodrama”.

Già dalla copertina vediamo che qualcosa è cambiato: se in “Pure Heroine” avevamo semplicemente il titolo e l’artista, senza alcuna immagine, in “Melodrama” campeggia un ritratto molto affascinante della giovane Ella, quasi un quadro impressionista. Ma i cambiamenti di maggiore portata sono artistici.

In “Melodrama”, infatti, Lorde aggiorna la formula vincente del suo precedente lavoro: accanto al pop a volte ingenuo che la caratterizzava (perfettamente accettabile, visto che risaliva a quando Lorde era ancora minorenne), nel nuovo LP abbiamo un’elettronica tremendamente orecchiabile e perfettamente amalgamata al dolce pop delle origini, tanto che “Melodrama” è molto coeso, ritmicamente parlando.

Anche tematicamente, del resto, c’è un tema che lega fra loro le 11 canzoni del disco: Lorde immagina di trovarsi ad un party e di viverlo pensando anche ai problemi che non solo la riguardano personalmente, ma che sono riferibili a più o meno tutti i giovani millennials, per esempio la rottura di un fidanzamento e le sue conseguenze, la voglia di vivere il momento senza freni, gli effetti dell’improvvisa fama…

Ma è musicalmente, come già detto, che scatta la vera meraviglia: “Melodrama” è infatti uno dei migliori CD pop dell’intero decennio, al pari di “Lemonade” di Beyoncé e “Art Angels” di Grimes. Accanto ai bellissimi singoli, la danzereccia Green Light e la raccolta Liability, abbiamo altre perle indimenticabili: in The Louvre compare una linea di chitarra molto riuscita, Hard Feelings/Loveless ha una struttura molto complessa ed è probabilmente il brano più ambizioso mai composto da Lorde. Infatti, ricorda Royals inizialmente, ma poi evolve in un’elettronica minimal sorprendente e godibilissima.

Da elogiare anche il fatto che Lorde richiami, nella seconda parte dell’album, alcuni pezzi presenti all’inizio: abbiamo infatti Sober II (Melodrama) e Liability (Reprise), a testimoniare l’unità dei brani che compongono il CD.

In conclusione, stiamo parlando di un’artista nel pieno delle sue potenzialità: se dopo Royals potevamo pensare che la giovane Ella Marija Lani Yelich-O’Connor fosse una “one-hit singer”, prima “Pure Heroine” e adesso “Melodrama” ci hanno confermato che la vera, splendente popstar del XXI secolo risponde al nome di Lorde. Meno Katy Perry e Miley Cyrus, più Lorde: ecco un auspicio che ho per il futuro della musica pop.

Voto finale: 9.

Big Thief, “Capacity”

big thief

I Big Thief sono un complesso americano che suona un indie rock intimista come poche volte si è sentito, sia musicalmente che come tematiche affrontate. Il loro primo album, “Masterpiece” del 2016 (viva la modestia), era un buon connubio di pop e rock; in “Capacity” notiamo un affinamento della formula che li ha fatti conoscere.

Il punto di forza del gruppo è senza dubbio la bellissima voce di Adrianne Lenker, evocativa e fragile come solo le migliori voci femminili sanno essere: in Watering ne abbiamo un chiaro esempio. Le strumentazioni non sono né innovative né radicalmente differenti da “Masterpiece”, tuttavia il risultato complessivo è più convincente. Abbiamo infatti ottimi brani come l’intimista Pretty Things, Shark Smile (che parte quasi punk) e il nucleo del CD, la bellissima Mythological Beauty. Da non trascurare anche la parte finale del disco, con Haley e Mary come highlights.

In conclusione, “Capacity” sicuramente amplierà la platea di fans dei Big Thief, un premio meritato per un gruppo certo non rivoluzionario, ma che sa usare gli ingredienti dell’indie rock più classico per creare brani mai banali.

Voto finale: 7,5.

Alt-J, “Relaxer”

alt-j

Il terzo album del complesso inglese è una sintesi di tutte le sonorità incontrate nei due precedenti CD, il bel “An Awesome Wave” (2012) e “This Is All Yours” (2014). La fama degli Alt-J è cresciuta considerevolmente nel corso degli anni, facendone uno dei gruppi rock più apprezzati dal grande pubblico. Ciò malgrado le sonorità del gruppo non siano facili o commerciali: spesso paragonate ai Radiohead, a torto o a ragione, le canzoni degli Alt-J hanno in effetti sempre un non so che di malinconico, pur non arrivando alle vette espressive e artistiche di Thom Yorke & compagni.

“Relaxer” è un titolo ingannevole: le 8 canzoni che formano il CD sono tutto meno che rilassanti. A partire dall’iniziale 3WW, gli Alt-J creano un concentrato delle caratteristiche che li hanno fatti amare (o detestare, a seconda dei punti di vista): voci eteree, parti strumentali preponderanti e strutture delle canzoni mai banali. Colpiscono in particolare, tuttavia, le canzoni dove gli Alt-J si lasciano andare, trascinati da un ritmo più frenetico del solito: ad esempio, In Cold Blood e Hit Me Like That Snare. Anche i pezzi più lenti, va detto, non si fanno disprezzare: l’ambiziosa House Of The Rising Sun magari è troppo lunga, ma certo non trascurabile; lo stesso dicasi per Deadcrush.

I difetti del disco sono principalmente due: il ridotto numero di canzoni e la scarsa coesione tra le varie sonorità affrontate. Quest’ultimo aspetto può anche rivelarsi un vantaggio, per esempio lo era in “Kid A” dei loro mentori Radiohead; però in un LP che non introduce nulla di nuovo nel mondo degli Alt-J rischia di essere visto come una svolta a metà.

In conclusione, “Relaxer” non verrà ricordato come il più bel lavoro del trio britannico, però merita comunque un ascolto. L’evoluzione degli Alt-J continua: vedremo dove li condurrà nel prossimo CD.

Voto finale: 7,5.

Sufjan Stevens, Bryce Dessner, Nico Muhly & James McAlister, “Planetarium”

planetarium

Quando Sufjan Stevens si lancia in un nuovo progetto, l’attenzione è sempre massima: stiamo parlando di uno dei cantautori più importanti della nostra epoca, con all’attivo capolavori come “Illinois” (2005) e “Carrie & Lowell” (2015). Ancora più interessante è il fatto che il nuovo progetto sia in collaborazione con il chitarrista dei The National, Bryce Dessner, e due ottimi musicisti come Nico Muhly e James McAlister. Cosa potrà mai venire fuori da un grande artista folk, un chitarrista indie rock e due musicisti molto sperimentali nelle loro composizioni? La soluzione alla domanda è “Planetarium”, un monumentale CD di 17 brani per 77 minuti di durata, che fonde fra loro elettronica e sperimentalismo. Resta poco o nulla del folk scarno di Sufjan, ma anche il rock raffinato dei The National si perde nella costellazione sonora dell’album.

Già la genesi dell’album meriterebbe un articolo a parte: un museo di Eindhoven nel 2011 commissionò a Muhly un’opera riguardante il sistema solare. Lui decise di coinvolgere gli altri tre amici copra menzionati e vennero fatte delle registrazioni. Al di là di qualche performance live, tuttavia, il progetto non venne mai portato a compimento. Questo fino al 2016, quando i quattro ripresero le registrazioni e decisero di estrarre un CD incardinato sullo stesso tema originariamente commissionato a Muhly.

Sufjan Stevens, infatti, presta la voce a un LP dedicato al sistema solare: tutti i titoli infatti richiamano parti del nostro universo, dai pianeti alla materia oscura, dalle stelle alle comete. Molti brani superano i 5 minuti di durata (Earth addirittura i 15), ma altri sono brevissimi (Halley’s Comet, Tides e Black Hole sono inferiori al minuto). La struttura del lavoro è dunque variegata, per non dire confusa. Tuttavia, il fascino della voce di Sufjan e le complesse melodie che caratterizzano le canzoni di “Planetarium” ne fanno una sorta di “The Age Of Adz” 2.0; non tutto è perfetto, ma i risultati sono comunque intriganti.

Tra gli highlights del CD abbiamo Uranus, Black Energy (entrambe con ottimi intermezzi strumentali), la deliziosa Moon e l’elettronica Saturn, in cui Stevens modifica visibilmente la sua voce con l’Autotune e la vicinanza a “The Age Of Adz” è evidente.

Il lavoro, inevitabilmente, ha anche dei passi falsi, dato il grande numero di canzoni e l’elevata difficoltà di trovare ritmi sempre cangianti ma non eccessivamente complessi per il pubblico: fra di essi ricordiamo la troppo barocca Pluto e la già menzionata Earth, eccessivamente prolissa: infatti, malgrado una buona prima parte, la canzone si perde nel finale.

In generale, dunque, se da una parte i nomi che hanno collaborato al progetto di “Planetarium” sono indubbiamente importanti per la scena musicale contemporanea, dall’altra era difficile sperare in un LP coeso e sempre efficace, date le diverse origini e i differenti percorsi musicali seguiti dai quattro protagonisti. Il risultato finale resta comunque accettabile: merita almeno un ascolto.

Voto finale: 7.

Phoenix, “Ti Amo”

phoenix

“Ti Amo” è il sesto album dei francesi Phoenix, ispirato da un viaggio a Roma del cantante Thomas Mars (tra l’altro marito della regista Sofia Coppola). Come si può intuire dal titolo, l’influenza del Belpaese è presente ovunque: 5 delle 10 canzoni del CD possiedono titoli italiani, spesso anche i testi sono cantati in italiano (neanche troppo zoppicante) da Mars. Un motivo in più per amare i Phoenix, dunque? Indubbiamente sì, per noi italiani. Chissà i cugini d’Oltralpe cosa ne penseranno…

A parte le battute, musicalmente prosegue la lenta evoluzione del quartetto. Partiti da una forte ispirazione new wave, con nobili ascendenti come Air e Daft Punk, a partire dal bellissimo “Wolfgang Amadeus Phoenix” (2009) i Phoenix hanno cercato di percorrere lidi alternativi, mai distaccandosi troppo dall’amato french rok sia chiaro, ma facendo ipotizzare una svolta nel loro sound. Infatti, in “Bankrupt!” del 2013 avvertivamo un influsso di sonorità quasi orientaleggianti (basti ricordare Entertainment), mentre in questo “Ti Amo” abbiamo una forte apertura per la musica dance. Si badi: niente di tamarro à la Chainsmokers, ma certamente sonorità più elettroniche che nei precedenti LP.

Abbiamo già ricordato la particolarità del CD: evocare continuamente l’Italia e le sue bellezze. Non è strano, dunque, citare il fior di latte o Via Veneto nei titoli di due canzoni, così come sentire evocare i grandi Lucio Battisti e Franco Battiato in J-Boy. A volte, poi, Mars mescola fra di loro addirittura tre lingue: inglese, francese e italiano! Succede nella title track Ti Amo e in Goodbye Soleil.

Tra i brani migliori del disco abbiamo il singolo J-Boy; la trascinante Lovelife; e la orecchiabilissima Fleur De Lys. Non stiamo parlando di un capolavoro, insomma, anche perché a livello testuale (come quasi sempre nei lavori dei Phoenix) non abbiamo acute analisi della società o del presente politico, tanto per capirci. Tuttavia, un CD così compatto e ascoltabile in pressoché ogni contesto extralavorativo, dalla festa in spiaggia alla discoteca, non è disprezzabile, specialmente in estate.

Voto finale: 7.