Recap: febbraio-marzo 2024

Febbraio è stato un mese un po’ interlocutorio, paradossalmente ricco di EP interessanti tanto quanto di veri e propri CD. Dal canto suo, A-Rock ha recensito i ritorni di Burial, Little Simz e MGMT. Inoltre, spazio a Brittany Howard, agli IDLES, a Helado Negro e a Shygirl.

Marzo, dal canto suo, ha visto la pubblicazione di numerosi album attesi da pubblico e critica in egual misura. Ad esempio, abbiamo recensito i nuovi lavori di Liam Gallagher & John Squire, Ariana Grande, Waxahatchee e Adrianne Lenker. In più, spazio alla collaborazione Future & Metro Boomin, ai Mannequin Pussy e agli Yard Act.

Adrianne Lenker, “Bright Future”

Bright Future

Il nuovo album solista di Adrianne Lenker, affermata solista e cantante dei Big Thief, è una piccola gemma. Il folk passionale della cantautrice americana è più diretto che mai, senza filtri e con produzione minimale: i 43 minuti di “Bright Future” non sono per tutti, ma portano Adrianne nell’Olimpo delle cantautrici d’Oltreoceano.

Spesso è addirittura difficile le parole di Lenker: Evol (che non per caso si legge “love” al contrario) è tutta costruita su giochi di parole e calembour. Altrove abbiamo canzoni più semplici, con versi spesso semplicemente giustapposti, come un flusso di coscienza (Real House). Entrambe le canzoni sono highlight del lavoro; ottime anche Sadness As A Gift e Fool, non per caso scelte come singoli di lancio dalla Nostra. Solo Candleflame e Cell Phone Says sono leggermente inferiori alla media, ma il mood per lo meno è mantenuto costante: malinconico, non depresso; pessimista, mai catastrofista. È un equilibrio sottile, che Adrianne riesce a conservare grazie anche ad una voce sottile ma molto espressiva.

“Bright Future”, malgrado il titolo, non è un CD spensierato; Adrianne Lenker affronta anzi temi complessi come la catastrofe climatica incombente (“Don’t it seem like a good time for swimming, before all the water disappears?”, contenuta in Donut Seam) e la fine di una relazione (“You have my heart, I want it back”, da Evol). Il verso più poetico è però il seguente: “Stars shine like tears on the night’s face” (Real House). Se a questa qualità lirica abbini belle canzoni, cosa può andare storto?

Voto finale: 8,5.

Mannequin Pussy, “I Got Heaven”

I got heaven

Il nuovo album della band di Philadelphia era molto atteso da pubblico e critica: i Nostri venivano da singoli potenti e da un percorso di crescita costante, culminato col precedente “Patience” (2019). “I Got Heaven” affina il lato commerciale del quartetto (ai tre storici membri Colins Regisford, Kaleen Reading e Marisa Dabice si è infatti aggiunta Maxine Steen), con risultati spesso molto convincenti. Paradossalmente, sono proprio alcuni dei brani più duri e diretti ad essere fuori fuoco.

I Mannequin Pussy hanno saputo produrre con “I Got Heaven” un CD molto equilibrato: all’indie rock della squisita title track e di Sometimes si affianca l’ossessiva Loud Bark e l’hardcore punk di OK? OK! OK? OK!, così come la raccolta I Don’t Know You. Addirittura, Nothing Like flirta con lo shoegaze. Come accennavamo, molte di queste canzoni sono highlight del lavoro; peccato che la parte finale pecchi di sostanza, con brani inferiori come Of Her e Aching.

In generale, al tono carico del lavoro fanno da contraltare liriche a volte ironiche (“Just tell me what you need!” canta spossata Dabice in Aching), altre volte sfacciate (“Oh, I’m an angel, I was sent here to bring you company. And what if Jesus himself ate my fucking snatch?”, da I Got Heaven). I temi di “I Got Heaven”, come confessato dalla band in varie interviste, sono stati ispirati da un momento di grandi trasformazioni personali, tra rottura sentimentali e cambi di abitazione che hanno rotto la routine dei membri dei Mannequin Pussy.

Quello che, più di tutto, emerge è però il senso di comunità che “I Got Heaven” vuole scatenare nel pubblico; le canzoni sono fatte per essere cantate o urlate con i propri amici, oppure con un pubblico di estranei ad un concerto. In questi tempi così grami, non è forse questo lo scopo di un buon disco rock? “I Got Heaven” non sarà perfetto, ma i 30 minuti passati in sua compagnia non lasciano spazio al filler o a momenti morti. Non un pregio scontato.

Voto finale: 8,5.

Brittany Howard, “What Now”

what now

Il secondo album solista di Brittany Howard, cantante degli Alabama Shakes, è un ottimo compendio della musica soul più recente così come delle origini del genere (Stevie Wonder su tutti). Non si pensi, tuttavia, che “What Now” sia unicamente riconducibile solo ad un genere: house (Prove It To You), psichedelia (Red Flags) ed echi di Prince (Power To Undo) fanno capolino in una tracklist magari incoerente, ma di alta qualità.

Se il precedente suo lavoro solista “Jaime” (2019) si focalizzava sui temi razziali e sociali, percepiamo “What Now” come un CD meno impegnativo, ma non per questo frivolo: Brittany accenna infatti a domande esistenziali (“But will I know? Will I feel it? The first moment that I see it?”, Earth Sign), così come confessioni di fragilità (“You don’t see my injury, you don’t see the energy it takes me”, Every Colour In Blue). Possiamo dire quindi che questo è un album maggiormente introspettivo rispetto a “Jaime”.

I momenti indimenticabili non mancano: la title track e Red Flags sono canzoni ben strutturate e facilmente faranno la fortuna live di Howard. Stupisce l’accenno house di Prove It To You, del tutto inatteso; infine, come già accennato, Prince fa capolino in Power To Undo. Convincono meno le tracce eccessivamente lente, come To Be Still e Samson.

In conclusione, “What Now” è la migliore versione di Brittany Howard solista. Psichedelia, funk e soul sono gli architravi di un lavoro ben fatto e a tratti immacolato, malgrado alcune incoerenze che minano il risultato finale.

Voto finale: 8.

Waxahatchee, “Tigers Blood”

Tigers Blood

Il nuovo album di Katie Crutchfield col nome d’arte di Waxahatchee la trova pronta a continuare il percorso intrapreso con “Saint Cloud” (2020): un suono indebitato con il country, decisamente lontano dall’indie rock viscerale delle origini. Non parliamo necessariamente di un passo indietro; anzi, “Tigers Blood” perfeziona il suono di “Saint Cloud” e nei suoi momenti migliori è irresistibile.

A dare manforte a Katie sono Brad Cook alla produzione, già coinvolto in “Saint Cloud”, e il cantautore MJ Lenderman, che suona la chitarra in tutte le canzoni del CD e fornisce la propria voce in quattro di esse. I risultati, come dicevamo, nei tratti migliori di “Tigers Blood” sono ottimi: Bored e 3 Sisters sono ovvi highlight del lavoro. Buona anche Right Back To It. Leggermente inferiori sono The Wolves e Burns Out At Midnight, ma allo stesso tempo mantengono il mood sereno del lavoro.

Liricamente, Crutchfield si conferma abile a cogliere lo spirito dei tempi e di quello che accade nella propria vita in poche parole, al pari dei grandi parolieri country del passato e del presente, da Tom Petty e Lucinda Williams a Townes Van Zandt. Eccone alcuni esempi: “I get caught up in my thoughts, for lack of a better cause” (Lone Star Lake), “All my life I’ve been running from what you want” (3 Sisters), “There’s a lock on the door that costs more than my car, babe” (The Wolves).

In conclusione, “Tigers Blood” non è un album perfetto, ma manca davvero poco a Waxahatchee per scrivere il suo manifesto definitivo e, probabilmente, uno dei migliori album country della storia recente della musica. Katie Crutchfield si conferma cantautrice di livello superiore, pronta a spiccare definitivamente il volo.

Voto finale: 8.

MGMT, “Loss Of Life”

loss of life

Ben Goldwasser e Andrew VanWyngarden ci hanno abituato a pubblicare nuovi album ad un ritmo estremamente lento, specialmente in un panorama musicale che sembra spaventato da una sorta di horror vacui. Basti pensare che tra 2013 e 2024 hanno pubblicato come MGMT la miseria di tre CD di inediti.

Tuttavia, il progetto MGMT non ha perso popolarità tra il pubblico; anzi, l’inaspettato successo su TikTok di Little Dark Age ha garantito un ringiovanimento della fanbase del duo americano. “Loss Of Life”, dal canto suo, è un album pop, ricco di ballate, ma non propriamente mainstream: le stranezze di suite come Nothing Changes e della title track sono tipici stratagemmi degli MGMT. Dall’altro lato, Mother Nature e Bubblegum Dog sono due pezzi incontestabilmente riusciti ed entreranno probabilmente nella lista dei brani preferiti da parte dei fan del gruppo. Più deboli, invece, Phradie’s Song e Loss Of Life (Part 2).

Anche liricamente ci troviamo sullo stesso piano: frasi ironiche come “Come take a walk with me down billionaire’s row, trying to keep our balance over zero” (Mother Nature) e “No one calls me the gangster of love” (I Wish I Was Joking) sono associate ad altre molto più reali, fin quando la melodia si impegna a smentire il narratore (è questo il caso di Nothing Changes, in cui il titolo viene spazzato via dai numerosi cambi di ritmo). Menzione, infine, per Christine And The Queens, che solleva i risultati di una canzone altrimenti prevedibile come Dancing In Babylon.

In conclusione, “Loss Of Life” non è un LP perfetto, ma conferma i MGMT come leader della scena psichedelica d’Oltreoceano. Lontani sono i tempi di successi come Time To Pretend e Kids; non per questo, però, dobbiamo sottovalutare Ben Goldwasser e Andrew VanWyngarden, che si confermano una volta di più artisti imprevedibili.

Voto finale: 8.

Ariana Grande, “eternal sunshine”

eternal sunshine

Avevamo un po’ perso le tracce di Ariana Grande negli ultimi anni: risaliva al 2020 il suo ultimo CD, “Positions”, in cui la classe 1993 si apriva a influenze R&B e innovava il suo stile, in passato basato su ritmi EDM e trap, con risultati magari controversi, ma intriganti.

Quattro anni sono un periodo di tempo lunghissimo per una cantante che aveva pubblicato sei LP tra 2013 e 2020. Quattro anni ricchi di avvenimenti a livello mondiale (basti citare Covid-19, guerra in Ucraina e Medio Oriente), così come a livello personale: Ariana si è infatti sposata e l’anno scorso ha divorziato, iniziando a girare il film Wicked ed innamorandosi dell’attore protagonista, Ethan Slater.

“eternal sunshine” si propone come concept album: il tema centrale è la separazione di Ariana Grande dall’ex marito Dalton Gomez. Ciò emerge con maggiore prepotenza in certe canzoni (yes, and?, bye), mentre altrove abbiamo accenni all’astrologia (Saturn Returns Interlude). Alcune liriche sono ironiche (“Your business is yours and mine is mine… Why do you care so much whose dick I ride?”, presa da yes, and?), altre amare (“How can I tell if I’m in the right relationship?”, in intro (end of the world)), ma in generale il tono delle canzoni e dei testi è allegro, pronto alla rinascita.

Le canzoni migliori del lavoro sono le trascinanti yes, and? e we can’t be friends (wait for your love), non a caso scelte come singoli di lancio del disco. Ottima anche bye, che ricorda la migliore Mariah Carey. Inferiori alla media invece la troppo breve Saturn Returns Interlude e l’ovvia imperfect for you. In generale, i 35 minuti di “eternal sunshine” scorrono benissimo e lo rendono uno dei migliori LP a firma Ariana Grande.

Voto finale: 7,5.

IDLES, “TANGK”

tangk

Il quinto album della band britannica prometteva di essere un momento cruciale per una carriera di successo, soprattutto Oltremanica, che sembrava avere imboccato una strada quasi sperimentale col precedente “Crawler” (2022). Non stiamo parlando di un atto rivoluzionario come “Achtung Baby” (1991) per gli U2, oppure “Kid A” (2000) per i Radiohead; allo stesso tempo, “Crawler” aveva riproposto gli IDLES in chiave art rock, con risultati spesso intriganti.

“TANGK” prosegue nel percorso intrapreso nel precedente CD, grazie anche all’aiuto di produttori esterni di successo come Kenny Beats e Nigel Godrich. Ad esempio, non avremmo mai potuto ascoltare IDEA 01 in “Brutalism” (2017), l’esordio del gruppo. Non tutti gli episodi di “TANGK” convincono appieno, ma nel complesso siamo di fronte ad un lavoro coraggioso, che apre interessanti prospettive per Joe Talbot e compagni.

Se c’è un problema, sono le liriche, a volte fuori contesto (Hall & Oates è un’ode all’amicizia, ma i due personaggi citati si disprezzano nella vita reale), altre semplicemente fuori luogo (“Fuck the king”, urlato alla fine di Gift Horse). In generale, su questo aspetto gli IDLES devono maturare ed imparare a suonare più raffinati e sfumati: meno slogan e maggiore profondità gioverebbe al percorso musicale intrapreso dai Nostri.

Questo è davvero un peccato, perché canzoni efficaci come Gift Horse e Dancer (quest’ultima vanta la collaborazione degli LCD Soundsystem) sono highlight di un’intera carriera. Buone anche IDEA 01 e POP POP POP; meno riuscita A Gospel.

In conclusione, “TANGK” pare un album di transizione verso lidi inesplorati per Talbot e co.; non parliamo di un capolavoro, ma il CD apre rotte davvero interessanti per il gruppo, soprattutto in tema art rock ed elettronica. Il prossimo LP promette di essere dirimente per il futuro degli IDLES.

Voto finale: 7,5.

Yard Act, “Where’s My Utopia?”

where's my utopia

Il secondo album del complesso britannico resta ancorato alle radici post-punk degli Yard Act, ma introduce elementi nuovi, tra cui dance ed hip hop, che rendono la ricetta più variegata rispetto all’esordio “The Overload” (2022). Allo stesso tempo, non tutti gli esperimenti funzionano, soprattutto quelli a base autotune non convincono, ma va ammirato il coraggio del gruppo capitanato da James Smith.

Il lavoro affronta post-punk (A Vineyard For The North), dance (The Undertow), funk (We Make Hits) e varie altre sfumature con buona qualità media: non scontato per un gruppo che sembrava inquadrato in un minimalismo intrigante, ma alla lunga vincolante. Peccato che alcune buone melodie (Petroleum) siano parzialmente rovinate dall’uso dell’autotune, che poco si integra col tono di Smith. Si sente molto, in questo, la mano del produttore Remi Kabaka Jr., in passato collaboratore dei Gorillaz; in effetti, il risultato finale è un mix frizzante tra LCD Soundsystem, Beck e Pulp.

Abbiamo, in retrospettiva, molte buone tracce, come An Illusion e Dream Job, affiancate ad altre inferiori, da Fizzy Fish a. La coerenza non è il forte di “Where’s My Utopia?”, ma è innegabile che parliamo di un CD divertente e dall’elevato replay value. Capitolo a parte merita la lunghissima Blackpool Illuminations, oltre sette minuti di spoken word, che inevitabilmente dividerà il pubblico tra adoratori e scettici.

Gli Yard Act si confermano band talentuosa e, allo stesso tempo, pronta ad esplorare generi musicali lontani dalle loro passioni originarie. Il primo CD per una major non è un successo immediato, malgrado una canzone si intitoli ironicamente We Make Hits; allo stesso tempo, non possiamo dire che si siano venduti, come alcuni hanno accennato. Semplicemente, gli Yard Act hanno voluto provare qualcosa di diverso: speriamo che la prossima volta i risultati siano più vicini all’odissea dance-punk di The Trench Coat Museum, singolo del 2023 che non ha trovato spazio in “Where’s My Utopia?”, ad oggi la migliore canzone a firma Yard Act.

Voto finale: 7,5.

Burial, “Dreamfear / Boy Sent From Above”

dreamfear

Il nuovo EP del leggendario produttore inglese riprende una parte della sua estetica che sembrava ormai messa da parte: la techno più spinta. Basti ricordare che le ultime due pubblicazioni di rilievo del Nostro, “Antidawn” e “Streetlands” (entrambe del 2022), erano ben posizionate su sonorità ambient e più riflessive, per quanto l’inquietudine delle prime pubblicazioni di William Bevan aka Burial emergesse qua e là.

“Dreamfear / Boy Sent From Above”, come indica il titolo, si compone di due suite, idealmente i due lati di un vinile: Dreamfear è un lungo pezzo che idolatra la cultura rave dei primi anni ’00, quelli di maggior gloria di Burial e della scena elettronica britannica. Boy Sent From Above, pur rimanendo nello stesso range sonoro, è più ballabile.

Come sempre resta difficile capire i testi di Burial, ma alcune interiezioni rimangono in testa: “I am the high one, I am the lord of ecstasy” si sente proclamare all’inizio di Dreamfear. Qui, come altrove, emerge una sottile lode dell’uso di droghe: “This love, like a drug”, “Once it gets inside of you it takes over the bloodstream” e “There was something else in the drugs” ne sono altri esempi. Dal canto suo, Boy Sent From Above contiene testi più evocativi e meno subdoli, come “We were running through the city, in the dark”.

“Dreamfear / Boy Sent From Above” è un EP davvero di ottima fattura: Burial si conferma attore imprescindibile della scena elettronica moderna. Preferiamo questo suo lato scatenato e danzereccio a quello contemplativo delle ultime uscite; vedremo in futuro la sua musa dove lo condurrà.

Voto finale: 7,5.

Future & Metro Boomin, “WE DON’T TRUST YOU”

we don't trust you

Il primo album collaborativo tra Future, uno dei pesi massimi della scena trap statunitense, e Metro Boomin, produttore hip hop di grido, va percepito come un evento, almeno stando ai due protagonisti. Aggiungiamo un roster di ospiti di spessore, che spazia da The Weeknd a Kendrick Lamar, passando per Playboi Carti e Travis Scott. Tutto era pronto per un trionfo, o per un flop colossale: vie di mezzo non sembravano possibili.

In realtà, “WE DON’T TRUST YOU” contiene un buon numero di pezzi efficaci, pochi fiaschi e alcune canzoni che sono mediocri e nulla più; pertanto, il voto conclusivo è una perfetta media. A vantaggio del risultato finale, notiamo un Future finalmente coinvolto e voglioso di far vedere quanto vale, a differenza di alcuni suoi CD recenti. Metro Boomin, dal canto suo, si conferma creativamente inarrestabile, spaziando dall’hip hop classico alla trap, sempre con un occhio “cinematografico”  alle sue basi.

Liricamente, quando parliamo di Future, è chiaro che i temi saranno: sesso, droga, la vita da re che il Nostro conduce. Abbiamo però anche una canzone prettamente dedicata a umiliare due rapper rivali dei due autori e di Kendrick Lamar, Like That: la migliore del lotto, numero 1 nella classifica Billboard e con un verso di Kendrick devastante, da cui estraiamo i seguenti riferimenti: “Fuck sneak dissin’, first person shooter, I hope they came with three switches… Nigga, Prince outlived Mike Jack, motherfuck the big three, nigga, it’s just big me”.

I riferimenti della rabbia di Kendrick sono Drake e J. Cole; i tre sono spesso associati come i “big three” della scena rap internazionale. Beh, K-Dot non la pensa allo stesso modo e non esita a farlo presente agli altri due. Da sottolineare i punti aperti verso First Person Shooter, successo recente del duo J. Cole/Drake; e al fatto che Prince (Kendrick in questo caso) ha vissuto più a lungo di Michael Jackson (Drake, che spesso si paragona, a livello di fama, a MJ). La risposta di J. Cole, 7 Minute Drill, è stata da molti catalogata come flop colossale; vedremo se Drake risponderà a tono.

Oltre a Like That, altri brani efficaci sono Young Metro e Type Shit. Il problema è che tutte e tre le tracce sono inserite nella parte iniziale del lavoro, creando una tracklist sbilanciata. Non è un caso che alcuni dei brani più deboli, infatti, da Magic Don Juan (Princess Diana) a Seen It All e WTFYM, sono situati verso la fine di “WE DON’T TRUST YOU”.

In conclusione, il successo riscosso dal lavoro di Future e Metro Boomin è tutto sommato meritato e pare che porterà alla pubblicazione del seguito, “WE STILL DON’T TRUST YOU”, nel giro di poche settimane. Vedremo se i risultati saranno confortanti come il primo volume; di certo, sia Future che Metro Boomin hanno confermato la loro posizione di pilastri della scena hip hop.

Voto finale: 7,5.

Helado Negro, “PHASOR”

phasor

Il nuovo album di Roberto Carlos Lange come Helado Negro vira decisamente verso la musica d’ambiente. Le 9 tracce di “PHASOR” sono infatti facili da ascoltare e da assimilare; nondimeno, nessuna riesce davvero a stagliarsi sulle altre, rendendo il progetto molto uniforme e coerente, ma a tratti monotono.

I lettori di A-Rock potrebbero ricordare che Helado Negro era entrato nei nostri radar con “This Is How You Smile” (2019), un CD sempre dolce nelle sonorità, ma che trattava temi profondi come l’identità e la difficoltà ad integrarsi. “PHASOR”, dal canto suo, vede suoni meno incentrati sul groove e maggiormente sulla contemplazione, come accennavamo prima. Strutturalmente, l’album si sviluppa in 35 minuti, in cui si alternano pezzi in spagnolo (Colores Del Mar, Flores) ad altri in inglese (I Just Wanna Wake Up With You, Out There).

Liricamente, Lange non lesina liriche allusive, come: “Un policía me pegó me dejó por muerto y le dije ¿Quién eres tú?”, in LFO (Lupe Finds Oliveros); tuttavia, il tono del lavoro si mantiene generalmente rilassato (“And I’ll go outside, looking at the moon way too long”, da Best For You And Me), fattore che può essere un pro ma anche un contro. I migliori brani sono proprio Best For You And Me e la più mossa Wish You Could Be Here, mentre Echo Tricks Me e Out There sono fin troppo monotoni.

In conclusione, “PHASOR” pare un LP di transizione per Helado Negro: breve, non troppo sofisticato, ma non per questo trascurabile dai fan di Roberto Carlos Lange. Ideale per essere usato come musica di sottofondo quando si studia o lavora, “PHASOR” non passerà alla storia, ma i 35 minuti passati in sua compagnia non sono certo sprecati.

Voto finale: 7.

Shygirl, “Club Shy”

club shy

Il nuovo EP della cantante e produttrice britannica continua il percorso intrapreso con l’esordio “Nymph” (2022), virando però verso dance e house: diciamo che il revival degli anni ’00 procede spedito, anche grazie a figure come Shygirl. Non siamo di fronte a qualcosa di radicale, ma la Nostra si conferma uno dei talenti più brillanti della scena elettronica d’Oltremanica.

I 16 minuti scarsi di “Club Shy” rappresentano la durata giusta: siamo infatti di fronte a pezzi perfetti per essere suonati nelle discoteche passata una certa ora, con testi espliciti e riferimenti alla dance di Madonna e Charli XCX, tra le altre. I migliori episodi sono 4eva (con grande collaborazione di Empress Of) e la trascinante thicc, mentre sotto media resta mute.

In conclusione, “Club Shy” è un buon intermezzo verso il nuovo LP vero e proprio di Blane Muise (questo il vero nome di Shygirl): ad A-Rock siamo davvero impazienti di vedere i prossimi sviluppi di una carriera finora buona, ma che lascia intravedere ben altro potenziale.

Voto finale: 7.

Liam Gallagher & John Squire, “Liam Gallagher & John Squire”

liam gallagher john squire

Il primo album collaborativo tra l’ex frontman degli Oasis e l’ex chitarrista degli Stone Roses è un interessante mix di psichedelia e blues, due generi che non associamo facilmente a nessuno dei due artisti coinvolti. Non parliamo di un CD perfetto, ma nei suoi momenti migliori “Liam Gallagher & John Squire” regala gioie.

Liam, da par suo, aveva proclamato sui social che questo era il disco migliore della storia della musica dai tempi di “Revolver” dei Beatles (1966). L’umiltà è sempre stata una sua qualità, nulla da aggiungere. A parte gli scherzi, “Liam Gallagher & John Squire” contiene due canzoni che faranno la fortuna live del duo: Just Another Rainbow e Mars To Liverpool contengono alcuni dei momenti migliori dai tempi dello scioglimento delle due band principali della carriera di Liam e John.

Non sempre altrove la qualità resta la stessa. Ad esempio, Make It Up As You Go Along e I’m A Wheel sono prevedibili e non aggiungono nulla al lavoro; allo stesso tempo, il mood costante e la coerenza della struttura, uniti ad un minutaggio accettabile (39 minuti), fanno del CD un prodotto di discreta fattura.

In generale, non sempre le collaborazioni tra pezzi grossi funzionano: basti pensare a “Lulu” (2011), il colossale flop dei Metallica e Lou Reed. “Liam Gallagher & John Squire” mantiene alta la bandiera del britpop, con pizzichi di blues e psichedelia che arricchiscono la ricetta. Nessun “Revolver”, caro Liam, ma neanche un fiasco.

Voto finale: 6,5.

Little Simz, “Drop 7”

Sono stati anni impegnativi per Little Simz, quelli appena passati: nel 2021 il suo album “Sometimes I Might Be Introvert” ha fatto gridare in molti al miracolo, compresi noi di A-Rock, facendole vincere un Mercury Prize. Il successivo CD, “NO THANK YOU” (2022), era sembrato più un modo per chiudere una parentesi che per aprire un nuovo capitolo. “Drop 7” arriva pertanto in un momento delicato per l’artista inglese.

L’EP è un esperimento concepito in soli tre giorni da Simbiatu Abisola Abiola Ajikawo: non siamo quindi di fronte ad un vero e proprio testamento artistico, quanto ad un’esplorazione di dove si può spingere il suo hip hop duro e allo stesso tempo dolce e fragile.

Le basi sono prevalentemente elettroniche (Torch, SOS), con interessanti intarsi in portoghese (Fever): dispiace che il lavoro duri solo 15 minuti scarsi, dato che rende molto difficile farsi un’idea di come suonerebbe un intero CD con le medesime sonorità. In ogni modo, Little Simz si conferma voce unica nel panorama rap contemporaneo.

I brani migliori sono Mood Swings e Far Away, mentre sono sotto la media del lavoro Power, troppo abbozzata, e I Ain’t Feelin It. “Drop 7”, lo ribadiamo, non va preso come una battuta d’arresto in un percorso di crescita ininterrotto da parte di Little Simz; rappresenta piuttosto un passatempo, sia per la Nostra che per i suoi fan. Non vediamo l’ora di vedere il suo prossimo LP vero e proprio come suonerà.

Voto finale: 6,5.

Lascia un commento