Il 2016 consacra definitivamente Frank Ocean

frank ocean

Un intenso primo piano di Frank Ocean.

Agosto 2016 era andato via tranquillo, senza uscite musicali da segnalare nei nostri “Recap”. Finché… Ebbene sì: Frank Ocean è tornato dal suo letargo! Il 2016 ci restituisce un Frank in piena forma, artista ormai nel pieno delle sue potenzialità e versatile come solo i grandi sanno essere (due album, di cui uno abbinato a un enigmatico video, un magazine… Insomma, molte forme artistiche complementari e adatte alla sua narrazione). Ma procediamo con ordine.

Già da un anno circolavano voci sul seguito del magnifico “Channel Orange” del 2012, uno degli album migliori del decennio, intriso di riferimenti a pop, funk, soul e R&B. Frank sembrava troppo sotto pressione, sia da parte della critica che del pubblico, tanto da essere spinto a comunicare con l’esterno solo tramite Tumblr e rare comparsate in album di suoi colleghi (per esempio in “The Life Of Pablo” di Kanye West). Poi, finalmente, ad inizio agosto il suo sito viene rinominato “Boys Don’t Cry”, presunto titolo del nuovo CD, e Apple Music annuncia di avere una esclusiva trasmissione di nuova musica di Frank, abbinata ad un video. Lo streaming, finita la trasmissione, tace; poi il 19 agosto esce il video completo e rifinito, senza interruzioni, di quello che ora è “Endless”. Inoltre, Frank distribuisce in alcuni negozi in giro per il mondo una rivista di arte e moda da lui curata, intitolata proprio “Boys Don’t Cry”: un necessario completamento della sua narrazione artistica.

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La copertina di “Endless”.

“Endless” in sé e per sé non è una raccolta indimenticabile di musica: se questo fosse stato il vero nuovo LP di Frank Ocean, non avrei nascosto la mia delusione. Restano però alcune tracce interessanti, oltre a una lodevole ambizione artistica nel tentare di abbinare un monotono video di lui che costruisce una mensola alla musica. Tutto assume un senso se lo paragoniamo alla pazienza dimostrata dai fans di Frank mentre lui componeva il suo nuovo lavoro di inediti. Una sorta di prova: solo chi supererà la visione del video e l’ascolto di quelle che sembrano B-sides o demo potrà raggiungere il privilegio di ascoltare il mio vero nuovo CD. Le canzoni migliori sono la romantica At Your Best You’re Love, cover degli Isley Brothers; Rushes; e la trascinante Higgs, dove viene scandito un discorso sul consumismo di massa dello scrittore Wolfgang Tillmans sopra synths potenti e “strani” per un artista afroamericano come Ocean.

Voto finale: 7,5.

blonde vera

La cover “ufficiale” di Blonde”.

“Endless” è niente in confronto al magnifico “Blonde”, a tutti gli effetti terzo album di inediti di Frank Ocean. Rispetto a “Channel Orange” manca la vulcanica creatività e l’accavallarsi di generi diversi che caratterizzavano il precedente CD, ma migliora la coesione generale e aumentano gli ospiti e i produttori di spessore, che rendono “Blonde” davvero irrinunciabile per gli amanti della buona musica.

In “Blonde” predomina un pop orecchiabile e affascinante, che in certi tratti si rifà a Prince (come nella bella Ivy); in altri casi invece compaiono lunghe interviste simili al Kendrick Lamar di “To Pimp A Butterfly” (come nella conclusiva Future Free). In generale, un album con collaboratori come Beyoncé, Kendrick stesso, Kanye West, Brian Eno, Jonni Greenwood dei Radiohead, Rostam Batmanglji dei Vampire Weekend e Jamie xx (ma non abbiamo citato il sample di Here, There And Everywhere dei Beatles in White Ferrari, oppure David Bowie e Gang Of Four, presunti “ispiratori” di Ocean nel making of del disco) non può che avere quel qualcosa in più rispetto a lavori più “convenzionali”.

Le liriche dell’album sono anch’esse significative: in Nikes (la bellissima traccia iniziale) si fa riferimento alle uccisioni di uomini di colore che recentemente hanno colpito gli Stati Uniti; in Be Yourself sentiamo, sotto una nenia che ricorda “Hurry Up, We Are Dreaming” degli M83, una telefonata in cui la mamma di Frank dice al figlio di accettarsi per com’è, non cercando di apparire diverso per far felici gli altri, e gli consiglia di non fare mai uso di stupefacenti nella sua vita (un testo che dice molto delle traversie passate dal nostro negli scorsi anni); Facebook Story narra la storia assurda di un uomo e della sua ragazza, ossessionata dai social networks; Solo (Reprise) affida ad André 3000 (altro gradito ospite) accuse varie ai rapper che fanno scrivere ad altri i loro versi (vero Drake?). Vi sono poi liriche più intime, come nella bella Solo o in Skyline To, che raccontano le avventure sessuali e non di Frank.

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La copertina “alternativa” di “Blonde”.

Concludiamo analizzando una particolarità della copertina dell’album: come mai su Apple Music il CD compare come “Blonde”, ma la copertina (sia quella ufficiale che quella alternativa) recita “Blond”? Sembra una differenza da poco, ma potrebbe significare anche che Frank è a favore della fluidità di genere e preferenze sessuali, temi quanto mai attuali. Un altro dei misteri relativi a Frank Ocean dunque potrebbe contenere un messaggio universale di grande forza, a dimostrare che, anche se può sembrare “staccato” dalla realtà, in realtà Frank segue attentamente gli sviluppi storici e sociali dei nostri tempi.

Insomma, “Blonde” si staglia come il miglior CD del 2016 fino a questo momento: canzoni come Nikes, Ivy, Nights e Futura Free resteranno negli annali. Il mondo ha trovato il suo nuovo Prince: nell’anno della morte del Principe di Minneapolis, non potrebbe esistere incoronazione migliore.

Voto finale: 9.

Scheda: Muse

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La formazione dei Muse.

I Muse sono un famosissimo gruppo rock britannico, formatosi nel lontano 1994 e con una lunghissima discografia. Il loro stile si caratterizza per un forte rimando a Queen, Radiohead e diffusi innesti elettronici. Il risultato è a volte eccessivamente barocco e pompato, ma inimitabile: non a caso sono uno dei gruppi rock più celebri al mondo. Analizziamone la carriera.

“Showbiz”, 1999

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L’esordio del terzetto britannico richiama fortemente i Radiohead di “The Bends” e “OK Computer”, tanto che i Muse vengono velatamente accusati di plagio da alcuni critici musicali. I risultati comunque non sono disprezzabili (non a caso i fans sono ancora affezionati al CD): ottimi pezzi come Muscle Museum, Sunburn e la romantica Unintended sono ancora oggi evocativi. Niente di che, ma i Muse dimostrarono che la stoffa c’era. Voto: 7,5.

“Origin Of Symmetry”, 2001

origin of symmetry

Eccolo qua il primo grande disco dei Muse: lo stile marcatamente radioheadiano lascia il posto ad uno space rock molto ambizioso, venato da hard rock ma anche ballate efficaci. I brani migliori sono la meravigliosa New Born (con grandissima progressione nella parte centrale), Bliss, la trascinante Plug In Baby e la intima Feeling Good. Insomma, un trionfo. Voto: 8,5.

“Absolution”, 2003

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I Muse erano al picco della creatività e della fama, ma erano contemporaneamente attesi al varco: avrebbero confermato i risultati di “Origin Of Symmetry”? I tre ragazzi inglesi risposero con un CD ancora più solido e coeso: brani come Time Is Running Out e Hysteria sono grandi pezzi rock. Vi sono però anche ballate efficaci, come Sing For Absolution e Apocalypse Please. L’hard rock di Stockholm Syndrome rende il tutto ancora più pepato. In poche parole, uno dei migliori CD del 2003 e dell’intero decennio. Voto: 9.

“Black Holes And Revelations”, 2006

black holes and revelations

I Muse avevano davanti due strade: rischiare ancora di più, avventurandosi in lidi musicalmente inesplorati, oppure adagiarsi sull’efficace formula coniata nei loro due precedenti lavori. Bellamy e co. scelsero coraggiosamente la prima opzione, tentando la strada dell’elettronica e del progressive rock. Emblemi della svolta sono le bellissime Supermassive Black Hole e Knights Of Cydonia, ancora oggi immancabili nei live della band. Le belle canzoni non si fermano qui: come scordare le squisite Starlight e Map Of The Problematique? Insomma, un altro capolavoro era stato aggiunto alla già brillante carriera dei Muse. Voto: 9.

“The Resistance”, 2009

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Il più queeniano degli LP dei Muse è anche quello più controverso. La band infatti tentò ancora nuove strade, tra opera (nelle tre parti della conclusiva Exogenesis) e jazz (in I Belong To You, dove addirittura Bellamy canta in francese). I risultati sono altalenanti: buone la title track e Uprising, entrambe con marcate influenze politiche; meno le già citate Exogenesis e I Belong To You. Interessante Guiding Light, troppo lunga Unnatural Selection. Un (mezzo) passo falso capita a tutti, no? Voto: 7.

 “The 2nd Law”, 2012

the 2nd law

Il 2012 è l’anno delle Olimpiadi di Londra e i Muse sono chiamati a comporre la canzone-manifesto dei Giochi, quella Survival clamorosamente pompata ma alla fine godibile. Meglio però i Muse più “sobri”: per esempio nelle famose Supremacy ed Animals, bei brani che richiamano “Absolution”. L’esperimento dubstep di The 2nd Law: Unsustainable è intrigante, ma riuscito a metà. È comunque da lodare il coraggio dei tre inglesi di provare sempre strade nuove, cosa non banale nel panorama musicale odierno. Voto: 8.

“Drones”, 2015

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Il settimo album dei Muse è anche il meno riuscito, fino ad ora, nella loro produzione: la creatività sembra declinare. “Drones” cerca di tornare all’hard rock delle origini, mescolandovi i richiami politici presenti nei due precedenti lavori. Purtroppo, i risultati non sono propriamente scintillanti: buone Psycho e The Reapers, bella ma prevedibile Dead Inside, evitabili i brevi intermezzi Drill Sergeant e JFK. Insomma, discreto ma niente di che. Voto: 7.

 

Scheda: Foals

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I quattro componenti dei Foals.

I Foals sono un quintetto britannico, uno dei gruppi più interessanti della scena rock britannica. Partiti da un “math rock” con intarsi pop/funk, hanno progressivamente virato verso un rock decisamente più duro ma contemporaneamente “da arene”, simile a Muse ed U2, una formula vincente e intrigante. Andiamo con ordine e analizziamo la loro carriera.

“Antidotes”, 2008

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L’esordio dei Foals è davvero strano (tanto che gli stessi Foals hanno parlato di un genere “tropical-prog” per le loro canzoni): se inizialmente può risultare superficiale, approfondendo l’ascolto le cose migliorano e anche la voce monocorde del cantante Yannis Philippakis assume una sua funzione. Niente di che, ma alcune buone canzoni ci sono: in particolare ricordiamo la brillante Cassius e le ammalianti Olympic Airways ed Electric Bloom. Esemplifica il mood del disco la lunga e ambiziosa Big Big Love (Fig.2): tanta attesa per un riff assassino che non arriva mai. Insomma, il talento c’è, ma i risultati sono appena discreti. Voto: 7.

“Total Life Forever”, 2010

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“Antidotes” era stato ricevuto benino dalla critica, ma al pubblico era passato pressoché inosservato. I Foals cercarono dunque di essere più ambiziosi nei suoni e di trovare una loro nicchia nello sconfinato e competitivo mondo dell’indie rock. “Total Life Forever” rappresenta un gigantesco passo avanti rispetto all’esordio: le canzoni si fanno più sofisticate e ardite, Philippakis migliora nella parte canora e la base ritmica si rafforza. Sono molto belle This Orient, la potente After Glow e la lunga Black Gold; non male anche la iniziale Blue Blood. Menzione speciale per la magnifica Spanish Sahara, ballata di oltre sei minuti davvero trascinante. Insomma, i Foals hanno ormai acquisito lo status di potenziali headliner dei più importanti festival musicali europei. Voto: 8.

“Holy Fire”, 2013

holy fire

Tutti attendevano al varco i Foals: la tensione rischiava di divorarli. Invece, i cinque ragazzi se ne uscirono con un album ancora più bello di “Total Life Forever”, svoltando verso un rock più carico, quasi hard rock in certi tratti. Ne sono simboli due delle canzoni migliori del CD: Prelude e Inhaler (quest’ultima trascinante nel ritornello) sono come gemelli siamesi, una senza l’altra non esisterebbe, ma proprio per questo acquistano fascino. Non male il funk à la Hot Chip di My Number, così come il quasi shoegaze della conclusiva Moon. Insomma, un lavoro vario e ben riuscito, che conferma il talento dei Foals e il loro appeal sul pubblico. Uno dei migliori album dell’anno. Voto: 8,5.

“What Went Down”, 2015

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Il piano originario dei Foals, dopo il grande successo e il lungo tour seguito a “Holy Fire”, era di fermarsi per un po’. In realtà, l’ispirazione non era ancora terminata e decisero quindi di pubblicare il loro quarto lavoro di studio, il bel “What Went Down”. Non bisogna infatti pensare che sia un LP tirato via o poco curato; al contrario, la coesione e precisione dell’album sono ammirevoli. Anche la voce di Philippakis migliora, diventando sempre più importante per l’espressività delle melodie dei Foals. Inoltre, finalmente la band non concentra i brani migliori nella prima metà, cercando invece di essere più equilibrata, cosa non da poco. I pezzi migliori sono la potentissima title track (parente di Inhaler), la bella Mountain At My Gates e le più romantiche Birch Tree e Give It All. Ottima anche Night Swimmers. “What Went Down” sembra chiudere la prima parte della carriera dei Foals: il loro stile, un mix di funk, indie e hard rock, sembra aver dato il meglio di sé. Cosa ci attende? Nessuno può dirlo, ma la fiducia accumulata nei cinque ragazzi inglesi è immensa. Voto: 8

“Revolver”: l’album che portò i Beatles nell’Olimpo della musica

BEATLES PICTURED IN PHOTO RELEASED BY CAPITOL RECORDS

I Beatles nel 1966, anno della pubblicazione di “Revolver”.

1966: sembra passato chissà quanto tempo! In effetti, di cambiamenti negli ultimi cinquant’anni ne abbiamo visti molti, alcuni di incalcolabile importanza: progressi tecnologici, invenzioni fondamentali (computer, telefono cellulare)… Anche musicalmente di strada ne è stata fatta parecchia; molto, se non tutto il pop/rock contemporaneo, deriva dai Fab Four.

I Beatles erano già delle celebrità in tutto il mondo: partiti dal comporre canzonette apparentemente ingenue (ma in realtà affascinanti ancora oggi, basti pensare a Love Me Do o Twist And Shout), il quartetto di Liverpool era già arrivato alla settima fatica in studio. Colpisce la continua produzione di singoli e LP da parte dei Beatles: a quei tempi le attese superiori ai due anni significavano quasi sicuramente crisi all’interno del gruppo (anche i Beach Boys, ad esempio, avevano una creatività “torrenziale”). Fatto sta che Paul, John, George e Ringo erano davanti a una svolta nella loro carriera, quella che li avrebbe definitivamente consacrati come dei veri geni musicali.

Con “Rubber Soul” (1965) erano arrivati alla perfezione pop, basti sentire la squisita Michelle o Drive My Car. Con “Revolver”, i Fab Four giungono ad un livello decisamente superiore: in questo CD, ancora oggi pieno di sorprese ad ogni ascolto, troviamo marcate influenze della musica indiana e (addirittura!) tematiche politiche. In Taxman, ad esempio, si critica l’eccessiva imposizione fiscale inglese dell’epoca. Musicalmente, beh, serve almeno un paragrafo a sé stante.

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La copertina di “Revolver”.

Love You To è la più “indianeggiante” delle canzoni e anticipa l’inarrivabile capolavoro del complesso inglese, quel “Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band” (1967) da molti definito “il miglior album di tutti i tempi”. Poi abbiamo le gemme più pop: la celeberrima Yellow Submarine, la super-ottimistica Good Day Sunshine e la bellissima She Said She Said racchiudono l’intera discografia degli Oasis. Eleanor Rigby sembra quasi una canzone da camera, con quegli archi così prominenti: una volta in più il genio compositivo di McCartney viene messo in evidenza. Non male anche la più rockettara Doctor Robert. La conclusiva Tomorrow Never Knows è ancora oggi per certi versi misteriosa: come hanno fatto questi quattro a comporre un pezzo così avanti sui tempi e mantenere un tale successo popolare, cosa che per esempio non successe ai Beach Boys con il pur magnifico “Pet Sounds”? Probabilmente perché il pubblico, anche quello più semplice, non poteva resistere al fascino delle melodie di questi quattro (ok, tre più Ringo) geni musicali.

Ecco perché “Revolver” è ancora oggi un CD fortemente consigliato, uno di quelli davvero cruciali per capire il rock e il pop successivo. Le influenze sugli artisti successivi sono immense: dai Blur ai già citati Oasis, dai Verve ai Pulp… Insomma, tutti (o quasi) hanno dovuto fare i conti con questo capolavoro. Semplicemente, uno degli album più importanti della storia della musica moderna.

Voto finale: 10.

“Is This It” e la rinascita del rock

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Gli Strokes come apparivano nel 2001: giovani e sfrontati.

Siamo nell’estate 2001: a New York è sindaco Rudy Giuliani, il presidente americano è George W. Bush, le Torri Gemelle sono ancora in piedi… Insomma, erano tempi decisamente differenti da quelli odierni. Musicalmente parlando, l’anno precedente aveva visto l’uscita del fondamentale “Kid A” dei Radiohead, destinato a cambiare radicalmente lo scenario musicale. Il rock di una volta (quello dei Velvet Underground e dei Led Zeppelin, tanto per capirsi) pareva ormai morto e sepolto, a causa dell’invasione di elettronica e rock sperimentale, oltre che di imitatori dei Radiohead (vero Coldplay e Muse?); l’hip hop non era ancora inflazionato come adesso.

Cinque ragazzi newyorkesi, di buona famiglia, decisero che le cose non dovevano andare così. Dopo essersi fatti conoscere con il breve EP “The Modern Age” (contenente la omonima celebre canzone), gli Strokes diedero una scossa clamorosa all’indie rock con l’uscita dell’album di esordio “Is This It”, la cui copertina già anticipava alcune delle caratteristiche peculiari della band.

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La celeberrima copertina dell’album.

Foto in bianco e nero di quello che pare il fondoschiena nudo di una donna: l’obiettivo di rifarsi al rock d’antan risultando affascinanti anche per le giovani generazioni, non solo maschili, era evidente. Musicalmente, gli Strokes non inventano nulla di nuovo: il loro è un rock veloce, preciso e tremendamente efficace. I mentori sono Lou Reed, Television e i Ramones più commerciali. La cosa ironica è che il CD, pur sembrando “tirato via”, quasi registrato live, presenta brani pressoché perfetti, incastonati l’uno nell’altro e tutti con testi che descrivono la New York più alternativa (il testo di New York City Cops, ad esempio, prende in giro la polizia di NY).

“Is This It” inoltre contiene alcuni brani iconici, tra i migliori della produzione della band newyorkese: Someday e Last Nite sono magnifiche, Hard To Explain già dal titolo è più seria ma non meno bella. Altre perle sono le conclusive Trying Your Luck e Take It Or Leave It, dove i due chitarristi Albert Hammond Jr e Nick Valensi sono in grande evidenza. Menzione finale per la bella voce del cantante Julian Casablancas, che serve da perfetto contraltare ai toni e ai ritmi delle canzoni della band.

Non è un caso che gli Strokes non siano riusciti a replicare il grande successo di critica e pubblico di “Is This It”: dopo aver cercato di copiarne la formula vincente con il successivo “Room On Fire” (riuscendoci solo in parte), i cinque ragazzi hanno tentato nuove strade, dal pop anni ’80 al rock simil-Talking Heads, con risultati alterni.

Non possiamo non finire citando i motivi che ci spingono ad iniziare questa nuova rubrica proprio con questo LP. Ebbene, avete presente Franz Ferdinand, Bloc Party e Arctic Monkeys? Ecco, forse senza un apripista del livello di “Is This It” non ne avremmo mai sentito parlare. Non un merito da poco. E poi: com’è possibile che a 15 anni dall’uscita suoni ancora così fresco?! Saranno anche stati uomini da “un CD e via”, ma i meriti degli Strokes sono infiniti.

Voto finale: 9.

Scheda: Arcade Fire

arcade fire

I componenti degli Arcade Fire: quello seduto è il cantante Win Butler, la donna è sua moglie Régine Chassagne: sono loro i due leader del gruppo.

I canadesi Arcade Fire sono tra le cinque maggiori rock band mondiali. Partiti da un indie rock con raffinati intarsi “classici”, hanno successivamente sperimentato differenti generi, passando dal pop barocco alla musica caraibica con grande disinvoltura. Analizziamone insieme la carriera.

“Funeral”, 2004

funeral

Molte parole sono state scritte sul magnifico esordio degli Arcade Fire: quello che noi umilmente aggiungiamo è che, probabilmente, “Funeral” è l’espressione più alta e riuscita dell’ondata indie rock di inizio millennio. Brani come Wake Up e Rebellion (Lies) sono ormai leggendari; i quattro Neighborhood sono profondi testualmente e bellissimi nella loro varietà compositiva. In poche parole, un CD fondamentale, che non smette di trasmettere messaggi universali al pubblico (accettare la morte, assimilare la scomparsa di una persona cara e la solitudine sono i temi portanti dell’album). Voto: 9,5.

“Neon Bible”, 2007

neon bible

Tre anni dopo, il ritorno del gruppo canadese segna un netto passaggio verso un rock più adulto. Le sonorità si fanno meno trascinanti e più cerebrali; la voce di Win Butler cerca tonalità diverse. Di pezzi riusciti ne contiamo almeno tre: le potenti No Cars Go e Keep The Car Running e la più complessa Black Wave/ Bad Vibrations. Colpisce inoltre la coerenza sonora del CD, quasi a creare un concept album dalla spiccata religiosità. Insomma, un altro capolavoro. Voto: 9.

“The Suburbs”, 2010

the suburbs

Giunti al fatidico terzo album, gli Arcade Fire virano verso un pop molto più barocco dei precedenti lavori, con spruzzate di dance (come nella bella Sprawl II – Mountains Beyond Mountains). Il tema portante adesso è l’infanzia dei componenti della band nei sobborghi di Houston. Anche in “The Suburbs” pezzi riusciti non mancano: in particolare ricordiamo Ready To Start, We Used To Wait e City With No Children, tutti singoli estratti per promuovere il CD. Gli AF sembrano incapaci di sbagliare un LP: l’epiteto di “rock band migliore del mondo” pare essere meritato. Voto: 8,5.

“Reflektor”, 2013

reflektor

“Reflektor” è senza dubbio il lavoro più ambizioso mai concepito dagli Arcade Fire: due CD, 13 brani totali e 75 minuti di lunghezza, brani che superano facilmente i 5 minuti di lunghezza (la conclusiva Supersymmetry arriva addirittura a 11!). Insomma, il rischio flop era davvero dietro l’angolo. Il tutto aggravato dal genere scelto: una elettronica ballabile venata di influenze caraibiche. Iniziano ad arrivare le prime bocciature dai critici, ma in generale la risposta (anche del pubblico) è positiva. Non tutto è perfetto: la monotona Porno è fuori fuoco, ad esempio. Tuttavia, va premiato il coraggio del gruppo nel voler sempre osare e prendersi dei rischi: capolavori come la title track (dove partecipa anche David Bowie) e Awful Sound (Oh Eurydice) sono manifesto di ciò. Voto: 8.