Recap: maggio 2017

Anche maggio si è rivelato un mese ricco di uscite interessanti. Tra di esse, ci concentriamo in particolare sul clamoroso ritorno dei veterani Slowdive; sul terzo album di Mac DeMarco; sul quarto LP di Perfume Genius; e sul sesto CD dei Kasabian.

Slowdive, “Slowdive”

slowdive

È ufficiale: lo shoegaze è ancora vivo e lotta insieme a noi. Dopo il clamoroso ritorno nel 2013 degli alfieri di questo genere, i My Bloody Valentine, con il magnifico “m b v”, adesso anche gli Slowdive sono tornati a produrre nuova musica. E pensare che questo è solo il quarto album della band britannica, il primo dopo “Pygmalion” del 1995. Un’attesa di ben 22 anni, ma ripagata: i risultati di “Slowdive” raggiungono le vette artistiche dei precedenti lavori del gruppo, non rovinando un’eredità che inizia ad essere davvero ingombrante.

Gli Slowdive, infatti, riprendono da dove avevano finito: un genere a metà fra shoegaze e dream pop. Con parametri odierni, possiamo dire che in loro troviamo Beach House, M83 e My Bloody Valentine (ops) in egual misura. Nei suoi momenti migliori, “Slowdive” è davvero eccellente: l’iniziale Slomo è sognante e affascinante, anche grazie alla perfetta voce di Rachel Goswell; Don’t Know Why è davvero ipnotica, per merito soprattutto alle voci eteree della Goswell e di Neil Halstead; infine, Sugar For The Pill flirta col pop e contiene una magnifica linea di basso, inusuale per una band shoegaze. Ma è proprio per questi dettagli che amiamo gli Slowdive, no?

I difetti principali del lavoro sono due, il ristretto numero di canzoni (appena 8) e la monotona conclusione: Falling Ashes infatti, nei suoi 8 minuti di durata, rende fin troppo pessimista e malinconica l’ultima parte del CD. In generale, però, la qualità è molto alta, come già ribadito: l’ascolto di questo LP è consigliato a tutti coloro che vogliono sperimentare nuove forme di rock, entrando nel mondo dello shoegaze e immergendosi pienamente in un insieme di chitarre distorte, voci che si rincorrono e atmosfere ambient. Insomma, un estratto di puro shoegaze.

Voto finale: 8.

Perfume Genius, “No Shape”

perfume genius

Il quarto album di Mike Hadreas, in arte Perfume Genius, è un sontuoso lavoro pop. Se i precedenti suoi CD si contraddistinguevano per un pop più ermetico e minimal di quello mainstream, in “No Shape” Hadreas è più aperto, sia come tematiche trattate che come sonorità.

Le 13 canzoni che compongono l’album, per un totale di 43 minuti di durata, formano un album conciso e affascinante, con due chiare metà: se la prima è caratterizzata da ritmi gioiosi, la seconda è molto più drammatica e misteriosa, richiamando le sonorità di Brian Eno e del David Bowie più ambient. Insomma, Perfume Genius ha orchestrato un LP molto ambizioso e mai fuori fase: al netto di momenti che possono piacere meno di altri, il livello complessivo di “No Shape” è altissimo e avvicina Hadreas ai grandi autori pop contemporanei, su tutti Anohni (il fu Antony Hegarty).

Nella prima parte colpiscono particolarmente Otherside e Slip Away, mentre nella seconda ricordiamo soprattutto Run Me Through e la maestosa Alan, che chiudono l’album. La migliore è però Every Night: poco meno di 3 minuti di pop da camera fragile e ipnotico, con la bella voce di Perfume Genius a dominare. Dicevamo prima che vi sono pezzi leggermente più deboli, che abbassano il livello medio del CD: abbiamo ad esempio Just Like Love e Go Ahead, ma sono peccati veniali in un lavoro davvero notevole.

Dal punto di vista dei testi, l’omosessualità del cantante viene nuovamente fuori in molte delle canzoni, ma non con la negatività dei precedenti lavori: se nei primi suoi CD si parlava di abusi fisici e di sostanze stupefacenti, già in “Too Bright” (2014) cominciava a vedersi la luce in fondo al tunnel. In questo “No Shape” possiamo addirittura leggere dei riferimenti all’attualità politica, in particolare alla polemica sui diritti per le coppie gay: “How long must we live right before we don’t even have to try?” canta Hadreas in Valley General.

“No Shape” è dunque l’album più completo e riuscito di Perfume Genius: merita senza dubbio un posto d’onore tra gli album pop-elettronici più belli degli ultimi anni.

Voto finale: 8.

Mac DeMarco, “This Old Dog”

this old dog

Il terzo album del talentuoso musicista canadese Mac DeMarco, “This Old Dog”, prosegue la lenta evoluzione che ha contraddistinto la sua breve ma prolifica carriera. Qui Mac suona tutti gli strumenti e canta in tutte le canzoni, curando anche la produzione: insomma, un egocentrismo notevole. Non è un caso, probabilmente, che anche i testi riflettano questo atteggiamento: nella ipnotica My Old Man troviamo riferimenti al tormentato rapporto con suo padre, Sister è dedicata alla sorella minore.

Non bisogna però pensare che nella vita di tutti i giorni DeMarco sia un maniaco à la Kanye West, un altro che di egocentrismo se ne intende. Anzi, vale il contrario: lui si dà sempre l’apparenza del ragazzo appena alzato dal letto, con l’aria trasandata e mezza addormentata. Contemporaneamente, però, egli è anche una persona fragile e insicura: lo dimostrano i testi presenti soprattutto nei precedenti lavori, come “2” (2012) e il bel “Salad Days” (2014).

A colpire è l’evoluzione stilistica del giovane Mac: se nei precedenti CD era maggiormente in evidenza l’aspetto indie rock (spaziando da Two Door Cinema Club a Ariel Pink e Real Estate, tanto per capirsi), in “This Old Dog” il pop è preponderante. Sia chiaro: non parliamo di cambiamenti radicali, come del resto era difficile aspettarsi da una persona “calma” e assorta come Mac. Tuttavia, questo è il primo LP a firma Mac DeMarco dove la produzione è brillante e la cura dei dettagli massima: ai fan della prima ora potrà non piacere troppo la perdita dell’ingenuità e (finta) noncuranza dei primi lavori, ma le persone cambiano con il passare del tempo e Mac sembra aver trovato la definitiva maturità, personale ed artistica.

Musicalmente parlando, “This Old Dog” presenta un Mac DeMarco molto simile ai lavori solisti di John Lennon e ad Harry Nilsson: insomma, due padri della musica moderna. Proprio per questo il CD non brilla per innovazione, ma ciò non va a discapito della qualità complessiva: prova ne sono la bella title track, My Old Man, Baby You’re Out e A Wolf Who Wears Sheeps’ Clothes. Strana ma riuscita anche On The Level, che flirta con l’elettronica soft. In generale, le canzoni sono brevi, addirittura Sister dura poco più di un minuto. Tuttavia, la particolarità di DeMarco è di saper sempre cambiare le carte in tavola: la lunghissima Moonlight On The River (più di 7 minuti) è l’ideale chiusura del lavoro.

In conclusione, “This Old Dog” è un interessante passo in avanti nella discografia di Mac DeMarco, un artista di cui non sappiamo mai cosa pensare: ci fa o ci è? Avrà già raggiunto il picco delle sue capacità oppure no? Il giudizio è sospeso: “This Old Dog” rappresenta certamente il lavoro maggiormente personale e intimista del cantante canadese. Non vediamo l’ora di riascoltarlo in nuove tracce per dare un giudizio (speriamo) definitivo.

Voto finale: 7,5.

Kasabian, “For Crying Out Loud”

kasabian

Il complesso inglese, capitanato da Sergio Pizzorno e Tom Meighan, era chiamato ad una decisa inversione di tendenza: il precedente CD, “48:13” (2014), era stato una cocente delusione. A parte Eez-eh, infatti, il lavoro era un connubio mal riuscito di dance e funk: insomma, 48 minuti noiosi e pretenziosi. Le strade erano due: continuare sulla strada tracciata in “48:13”, migliorando radicalmente i risultati; oppure tornare sui più consoni lidi del rock alternativo.

I Kasabian, prudentemente, hanno deciso di tornare alle sonorità dei loro lavori più riusciti: quei “Kasabian” (2004) e “Velociraptor!” (2011) che sono ad oggi i loro CD migliori. In particolare, colpiscono le tre canzoni iniziali: III Ray (The King), You’re In Love With A Psycho e Twentyfourseven, mescolando Arctic Monkeys e Franz Ferdinand, si aggiungono ai brani più amati della loro produzione, per esempio L.S.F. e Fire. Ottima poi la lunghissima Are You Looking For Action?, che ricorda gli Hot Chip e denota una rinnovata ambizione di stupire il proprio pubblico da parte dei Kasabian.

Meno convincenti Comeback Kid e Wasted, che sembrano puro riempitivo per raggiungere il numero “prediletto” di canzoni per un CD rock (12). Va detto, però, che i risultati sono in generale confortanti: i Kasabian sono tornati in pista, non inventando nulla di nuovo, bensì puntando sulle loro qualità migliori, ovvero scrivere melodie ballabili e ritornelli accattivanti. Se sapranno seguire l’ambizione mostrata con Are You Looking For Action?, ne sentiremo delle belle. Bentornati.

Voto finale: 7.

Riecco i Gorillaz, più umani che mai

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Ci siamo: 7 anni dopo l’ultimo CD di inediti, il misterioso “The Fall”, Damon Albarn e Jamie Hewlett hanno resuscitato i Gorillaz. Giunta al quinto album, la band virtuale più famosa del mondo ha deciso di fare le cose in grande: ancora più varietà nella moltitudine di generi affrontati e una lista di ospiti spropositata. Una cosa è certa: questo “Humanz” è il CD più black della produzione dei Gorillaz; e anche il più politico.

Iniziamo la nostra analisi dalla parte prettamente strutturale: “Humanz” conta 20 canzoni, con una intro e 5 intermezzi. Si potrebbe pensare che l’insieme sia eccessivamente frammentato, ma non è così: Albarn aveva dichiarato che, in sede di scrittura dei pezzi, voleva comporre una playlist per la fine del mondo, che lui immaginava coincidere con l’elezione di Donald Trump. Cosa poi realmente avvenuta: il valore profetico dell’album è dunque indiscutibile. Ma i risultati sono all’altezza di questo ambizioso obiettivo? In generale sì: non sarà certo il miglior LP dei Gorillaz (“Demon Days” è irraggiungibile), ma anche “Humanz” ha molti pregi.

Il primo attributo del CD che salta all’occhio è la quantità di ospiti presenti: Vince Staples, Danny Brown, De La Soul tra gli esponenti più illustri della black music contemporanea; Noel Gallagher e Jenny Beth delle Savages per il rock. Ma non vanno trascurati Benjamin Clementine, Mavis Staples, Kelela… Insomma, ce n’è per tutti i gusti. In particolare, come già detto, questo CD sembra quasi un tributo alla musica nera: sono presenti forte influenze di hip hop, soul, funk e R&B. Gli episodi elettronici che caratterizzavano i precedenti lavori sono ridotti all’osso, così come i pezzi rock: un implicito segnale politico, in un periodo segnato dalle tensioni razziali, appare evidente in questa scelta stilistica.

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Ma è tempo di parlare delle canzoni di “Humanz”: a colpire positivamente è soprattutto la prima parte dell’album, in cui troviamo gli highlights del lavoro. Menzione in particolare per Ascension, Saturnz Barz e Andromeda, che vantano le collaborazioni rispettivamente di Vince Staples, Popcaan e D.R.A.M.; deludono un po’ invece Momentz (con i De La Soul) e Strobelite. Nella seconda parte, apprezzabile è Busted And Blue, tra i pochi brani in cui Albarn canta da solo, e la conclusiva We Got The Power, cantata con Noel Gallagher e Jenny Beth, senza dubbio il pezzo più adrenalinico del CD. Peccato per She’s My Collar, che abbassa la qualità media dell’album.

Dicevamo che questo è il lavoro più politico dei Gorillaz: ciò è evidente soprattutto in Hallelujah Money, in cui il giovane artista inglese Benjamin Clementine inneggia, come un santone, all’accumulazione del denaro come unica fonte di felicità. Un riferimento al neo-presidente americano sembra netto. Insomma, la critica di Albarn al materialismo rappresentato da Trump si sostanzia perfettamente in “Humanz”, forse il CD maggiormente “impegnato” della sua carriera.

In conclusione, dato per scontato il successo che bacerà il CD, noi non possiamo che apprezzarne la vena istrionica ma allo stesso tempo profondamente immersa nella realtà: saranno anche virtuali, ma un LP così “umano” come questo non è comune. Ecco, possiamo concludere così: per la prima volta nella loro carriera, i Gorillaz ci appaiono davvero umani. Bentornati.

Voto finale: 7,5.