Rising: Yaegi

yaeji

Yaeji.

La rubrica di A-Rock che mantiene alta l’attenzione sulle nuove promesse della scena musicale quest’oggi propone l’esordio su CD di Yaeji, musicista americana di origine coreana. Buona lettura!

Yaeji, “With A Hammer”

with a hammer

Il nome di Yaeji non suonerà completamente nuovo agli osservatori più attenti della scena elettronica. La giovane artista, classe 1993, ha già all’attivo due EP e un mixtape: il suo genere è un interessante ibrido di house e pop, che la rende allo stesso tempo sperimentale e accessibile.

Il CD è stato concepito in un momento complesso per Yaeji: lei stessa ha confessato di aver riversato nel lavoro ricordi d’infanzia a lungo soppressi, analisi delle ragioni alla base del movimento Black Lives Matter e sentimenti di alienazione. “With A Hammer”, già dal titolo e dalla copertina, suona infatti euforico e malinconico, opprimente e invitante.

“With A Hammer” arriva tre anni dopo “WHAT WE DREW” (2020), il mixtape che aveva definitivamente lanciato la carriera della Nostra. I risultati non sono sempre perfetti, ma Yaeji si conferma nome da tenere d’occhio, capace di inserire pezzi ambient (1 Thing To Smash) in una ricetta già consolidata. I migliori brani sono la trascinante Michin e For Granted, mentre sotto la media sono I’ll Remember For Me, I’ll Remember For You e Submerge FM.

In conclusione, “With A Hammer” è un buon LP di musica elettronica, capace di mescolare momenti collegabili a diversi generi (house, ambient e glitch) in maniera coerente. Certo, non tutto è perfetto, ma la base su cui costruire altri momenti di qualità in futuro c’è.

Voto finale: 7,5.

Recap: marzo 2023

Marzo è terminato. Un mese ricco di buona musica, in cui A-Rock ha dedicato la propria attenzione ai nuovi lavori di Kali Uchis, M83 e Lana Del Rey. Inoltre, spazio al terzo CD di Slowthai e Fever Ray, così come agli esordi del duo JPEGMAFIA & Danny Brown e delle boygenius. Infine, marzo ha visto la pubblicazione del secondo CD dei 100 gecs e il ritorno di Yves Tumor e dei Depeche Mode. Buona lettura!

Slowthai, “UGLY”

Il terzo album del rapper britannico era stato identificato da molti come il momento della verità per Tyron Frampton: dopo l’ottimo esordio “Nothing Great About Britain” (2019) e l’interlocutorio “TYRON” (2021), “UGLY” poteva rappresentare una trappola per la carriera di Slowthai. Nulla di tutto ciò: il CD è ben costruito e la potenza di alcuni brani lo porta all’ottimo livello del primo suo lavoro, forse anche a migliori risultati.

Slowthai ha da sempre flirtato con il punk e il rock, soprattutto nei suoi brani più sfrenati: Doorman ne è l’esempio più riuscito. “UGLY” recupera quella crudezza che era stata messa da parte in “TYRON”: evidente questa scelta nella doppietta iniziale formata da Yum e Selfish, due tra i migliori episodi del CD. Abbiamo successivamente anche brani più raccolti, come Never Again, che servono come momenti di pausa.

Menzioniamo poi il parco ospiti di “UGLY”, davvero di ottimo livello: Fontaines D.C., Shygirl e Taylor Skye dei Jockstrap fanno capolino ed arricchiscono ulteriormente la ricetta alla base del lavoro. I migliori pezzi sono Yum e Selfish, come già accennato; ma buona anche Never Again. Invece sotto la media Wotz Funny. I risultati, in ogni caso, restano notevoli e fanno di Slowthai una figura di riferimento nella scena rap d’Oltremanica.

Questa leadership si deve anche ad una figura pubblica senza compromessi: Slowthai è colui che ha esibito la testa amputata di un manichino raffigurante Boris Johnson durante i Mercury Prize del 2019. Testualmente, questa onestà estrema si riflette nelle liriche di “UGLY”: Yum contiene riferimenti a varie posizioni sessuali, per poi esplodere in “More coke, more weed… One drinks never enough, excuse me while I self-destruct”. Altrove emergono invece i suoi sentimenti verso ciò che c’è di più prezioso nella sua vita: “I’m thankful for the life that I lead, I kiss my son before I put him to sleep” (Selfish). L’irrequietudine però riemerge prepotente nella title track: “The moment the world stands still, you are not in control”.

“UGLY” è un album davvero riuscito, sotto tutti i punti di vista: musicalmente, Slowthai testa i limiti del rap, allargandone gli orizzonti verso punk e rock alternativo. Liricamente, siamo di fronte ad un uomo depresso ma realizzato, pessimista ma consapevole di essere privilegiato: Tyron Frampton si conferma unico, nel bene come, a volte, nel male. “UGLY” è il suo LP più riuscito e, ad oggi, è il miglior CD hip hop del 2023.

Voto finale: 8,5.

Yves Tumor, “Praise A Lord Who Chews But Which Does Not Consume; (Or Simply, Hot Between Worlds)”

Il lunghissimo titolo del nuovo album di Yves Tumor non tragga in inganno: non siamo di fronte ad un CD pretenzioso o eccessivamente prolisso. Anzi, vale il contrario: i 37 minuti di durata ne fanno un prodotto accessibile ai più, contando che la maggior parte delle canzoni è ispirata da post-punk e rock alternativo, con tocchi di psichedelia. Ne è passata di acqua sotto i ponti da quando Yves Tumor, ormai otto anni fa, pubblicava “Serpent Music” (2015), concentrato di musica elettronica e noise.

Dal punto di vista testuale, il lavoro conferma la fama di artista misterioso di Sean Bowie (questo il vero nome di Yves Tumor): molto spesso contano più le sensazioni evocate che le parole. Abbiamo delle affermazioni di principio come “You’re still a friend of mine” (Lovely Sewer) così come considerazioni più poetiche (“Stare straight into the morning star, with lips just like red flower petals”, da Meteora Blues).

“Praise A Lord Who Chews But Which Does Not Consume; (Or Simply, Hot Between Worlds)” musicalmente riparte da dove “Heaven To A Tortured Mind” (2020) aveva lasciato: rock gotico, misterioso ma invitante. Yves Tumor, nato in Tennessee ma ormai da anni di base a Torino, ha pubblicato un altro LP di ottima qualità: lo shoegaze di Meteora Blues e la trascinante Heaven Surround Us Like Hood sono gli highlight immediati. Da non sottovalutare poi Operator e God Is A Circle. Unico brano superfluo è la strumentale Purified By The Fire.

Nulla in realtà suona fuori posto, tanto che “Praise A Lord Who Chews But Which Does Not Consume; (Or Simply, Hot Between Worlds)” potrebbe addirittura essere il migliore lavoro a firma Yves Tumor. Il rock sporco e sensuale degli ultimi suoi lavori si addice decisamente bene all’estetica del Nostro, a cui ormai manca solo una vera hit per diventare una figura rispettata non solo dalla critica e dal pubblico più ricercato, ma anche dal mainstream.

Voto finale: 8,5.

Depeche Mode, “Memento Mori”

Il quindicesimo (!) album dei Depeche Mode ha rischiato di non vedere mai la luce: durante le registrazioni del lavoro uno dei tre componenti del gruppo, Andy Fletcher, è morto improvvisamente nella sua casa di Londra, lasciando Dave Gahan e Martin Gore da soli. Sarebbero stati in grado di produrre un CD tale da tenere alta la bandiera dei Depeche Mode?

La risposta è un sonoro sì. “Memento Mori” è uno dei migliori album di questo millennio per il gruppo britannico: brani oscuri come My Cosmos Is Mine si mescolano benissimo con hit dal sapore anni ’80 (Ghosts Again, Wagging Tongue) e ballate più simili ai Depeche Mode recenti (Soul With Me). Se anche questo fosse l’ultimo lavoro a firma Gahan & Gore, non potremmo dirci insoddisfatti.

Wagging Tongue, la seconda collaborazione diretta di sempre tra i due Depeche Mode superstiti, mette Gore e Gahan in bella mostra: il primo con una produzione sontuosa, il secondo con la sua sempre ricca voce in primo piano, in ottima forma. Altro highlight è il singolo Ghosts Again, che ricorda alcune tra le hit migliori del gruppo (People Are People e Never Let Me Down Again). Delude solo Caroline’s Monkey, troppo prevedibile.

Chi si aspettasse riferimenti testuali alla morte dell’amico Andy Fletcher resterà deluso; tuttavia, contiamo una canzone dedicata ad un altro grande artista recentemente scomparso, Mark Lanegan (Wagging Tongue). Altrove troviamo dimostrazioni di fragilità travestiti da proclami da macho (“Don’t stare at my soul, I swear it is fine”, My Cosmos Is Mine).

“Memento Mori”, date le circostanze in cui è stato concepito, è un titolo profetico. Inoltre, siamo di fronte all’album più elettronico e dark dei Depeche Mode dai tempi di “Playing The Angel” (2005): è un caso che sia anche il più riuscito degli ultimi 20 anni? Chapeau in ogni caso a Martin Gore e Dave Gahan, capaci di tenere alto il nome del gruppo synthpop, forse, più importante di sempre.

Voto finale: 8.

boygenius, “The Record”

Il supergruppo tutto al femminile formato dalle star dell’indie Phoebe Bridgers, Lucy Dacus e Julien Baker ha finalmente pubblicato il suo LP d’esordio, dopo l’omonimo EP di grande successo del 2018. Uscito proprio l’ultimo giorno di marzo, “The Record” non è l’instant classic che alcune riviste d’Oltreoceano vogliono farci credere, ma senza dubbio è un CD riuscito e, nelle parti migliori, irresistibile.

Le tre artiste sono molto amiche anche nella vita fuori dal palcoscenico e questa vicinanza traspare nel corso del lavoro: gli spazi sono equamente distribuiti, così che Phoebe, Lucy e Julien possono ciascuna brillare. Alcuni brani godono di questo spirito collaborativo: $20 e Satanist sono highlight innegabili. Buone anche True Blue e Not Strong Enough. Invece sotto la media l’iniziale Without You Without Them e Revolution 0, entrambe senza mordente.

Liricamente, le tre boygenius si confermano maestre nello spiegare a cuore aperto i problemi che la generazione dei millennials si trova ad affrontare in questi anni di crescita e raggiungimento dell’età adulta: “I’m 27 and I don’t know who I am” canta sconsolata Bridgers in Emily I’m Sorry. Altro verso significativo è contenuto in Without You Without Them: “I’ll give everything I’ve got… Please take what I can give”. Infine, in Satanist troviamo addirittura un proclama rivoluzionario: “Will you be an anarchist with me? Sleep in cars and kill the bourgeoisie”.

In conclusione, “The Record” è un buon lavoro indie rock, in cui le estetiche di Phoebe Bridgers, Lucy Dacus e Julien Baker trovano reciprocamente un perfetto complemento. Siamo di fronte a tre artiste che faranno parlare di loro ancora a lungo e il marchio boygenius è più vivo che mai: cosa chiedere di più ad un disco rock nel 2023?

Voto finale: 8.

Kali Uchis, “Red Moon In Venus”

Il terzo album della cantante di origine colombiana è un concentrato del miglior R&B: sensuale, creativo e sempre curato nei minimi particolari. Kali Uchis continua così una carriera di grande successo, sia di pubblico che di critica: dopo il felice esordio “Isolation” (2018) e il buon seguito “Sin Miedo (Del Amor Y Otros Demonios) ∞” (2020), “Red Moon In Venus” allarga ancora gli orizzonti della Nostra verso psichedelia e soul.

Il singolo di lancio, I Wish You Roses, è una delle canzoni più belle a firma Kali Uchis; ma abbiamo anche altre perle. Non possiamo infatti tralasciare Moonlight e Blue; sono inferiori alla media solo Fantasy e l’inutile In My Garden, lunga appena 25 secondi. Tuttavia, i risultati complessivi sono ottimi: il CD suona coeso, nessun brano è fuori posto e la voce di Uchis è sempre al top.

Il CD suona organicamente sia nella musica che nei testi: al centro del disco troviamo l’amore, in tutte le sue forme, da quello più materiale (Hasta Cuando) a quello più apparentemente inscalfibile (“Wanna spoil me in every way… It’s Valentine’s like every day”, da Endlessly), passando per le rotture sentimentali (“When you’re all alone, you’ll know you were wrong”, canta Kali in Moral Conscience). Da questo punto di vista, I Wish You Roses contiene il verso che sintetizza l’intero LP: “With pretty flowers can come the bee sting… But I wish you love”.

In conclusione, “Red Moon In Venus” è il miglior R&B del 2023 finora: Kali Uchis si conferma popstar di grande talento, pronta a scrivere pagine sempre più rilevanti per la musica moderna.

Voto finale: 8.

JPEGMAFIA & Danny Brown, “Scaring The Hoes”

Il primo album collaborativo dei due rapper iconoclasti per eccellenza è un esperimento estremo, dati i canoni dell’hip hop moderno: industrial, punk e noise creano delle basi imprevedibili, su cui i due declamano versi spesso polemici verso l’industria discografica o i loro pari. Non stiamo chiaramente parlando di un CD per tutti, ma è da provare se si ama l’hip hop più sperimentale.

A guidare è chiaramente JPEGMAFIA, che si prende anche gli oneri della produzione; quest’ultima in un certo senso, a seconda dell’ascoltatore, può rivelarsi un punto di forza o di debolezza dell’intero lavoro. Le basi sono sempre in primo piano, spesso a danno delle voci dei Nostri; ciò è inusuale soprattutto per Brown, nei cui CD solisti spesso abbiamo la sua tonalità nasale in grande rilievo.

Tuttavia, nei suoi momenti migliori “Scaring The Hoes” fornisce molti spunti di attenzione: i due singoli di lancio, Lean Beef Patty e la title track, sono tra le migliori tracce del lotto. Buona anche Garbage Pale Kids, con base davvero potente. Di difficile comprensione invece Fentanyl Tester, ma se non altro resta coerente col mood folle del CD.

È frequente rintracciare nel corso di “Scaring The Hoes” invettive contro l’industria discografica: ne è un esempio questo verso, preso da Steppa Pig: “It’s like I’ve been workin’ for crumbs, now I’m feelin’ free as my speech”. In Lean Beef Patty oggetto dei versi di JPEGMAFIA e Danny Brown è Elon Musk, in particolare la sua controversa gestione di Twitter. Abbiamo poi due brani che citano esplicitamente altri rapper di successo negli Stati Uniti: Run The Jewels e Jack Harlow Combo Meal.

In conclusione, siamo di fronte ad uno dei dischi più stralunati dell’ultimo periodo; ma del resto cosa potevamo aspettarci da due menti vulcaniche come JPEGMAFIA e Danny Brown? “Scaring The Hoes” non è un LP perfetto, ma i suoi momenti più memorabili lo rendono un’esperienza musicale davvero unica.

Voto finale: 8.

Lana Del Rey, “Did You Know That There’s A Tunnel Under Ocean Blvd”

Il nono album della cantautrice americana è al tempo stesso una rivisitazione delle sue passate incarnazioni e uno sguardo al futuro. Tra brani che suonano indubbiamente Lana Del Rey (la title track, Fingertips) ed esperimenti arditi (A&W, Taco Truck x VB), siamo di fronte ad un CD lunghissimo (77 minuti), complesso e a volte prolisso; ancora una volta, però, Lana porta a casa la pagnotta e apre nuovi, interessanti percorsi artistici.

Nuovamente coadiuvata dal fidatissimo Jack Antonoff alla produzione (che compare anche col nome d’arte Bleachers in Margaret), Lana si apre a molte influenze esterne: Father John Misty, Jon Batiste e Tommy Genesis tra gli altri. Abbiamo alcune tra le migliori canzoni mai scritte dalla Nostra: A&W ha tre movimenti all’interno dei suoi sette minuti, The Grants (dedicato alla sua famiglia) è classicamente Del Rey, la conclusiva Taco Truck x VB addirittura remixa Venice Bitch.

Abbiamo poi episodi più sognanti, come Fingertips e Margaret, che fanno tornare con la mente ad “Honeymoon” (2015). Tra i brani che purtroppo vanno oltre c’è Judah Smith Interlude, in cui il pastore di fiducia di Lana declama un’omelia energica quanto fuori luogo nel computo generale del CD. Anche Kintsugi, pur raffinata, è troppo prolissa nei suoi sei minuti abbondanti.

Liricamente, in un album così abbondante di spunti, occorre fare una selezione accurata: The Grants, come già accennato, è dedicata alla sua famiglia. Compaiono riferimenti a parenti anche in Grandfather please stand on the shoulders of my father while he’s deep-sea fishing, in cui viene evocate la figura del nonno quasi come se fosse un guardiano che, dal cielo, protegga il padre di Lana. Peppers, invece, menziona i Red Hot Chili Peppers come figura di riferimento per Lana, mentre Fingertips pone domande che, prima o poi, influenzano tutti: “Will the baby be all right? Will I have one of mine? Can I handle it even if I do?”.

“Did You Know That There’s A Tunnel Under Ocean Blvd” è un LP complesso, che richiede più ascolti per essere analizzato con cognizione di causa. Non siamo di fronte al miglior lavoro a firma Lana Del Rey, “Norman Fucking Rockwell!” (2019) resta inarrivabile, ma l’abbondante creatività e ambizione di Lana fanno pensare che il suo serbatoio sia ancora pieno di belle canzoni.

Voto finale: 8.

M83, “Fantasy”

Quattro anni dopo “DSVII”, il complesso francese trapiantato a Los Angeles e capitanato da Anthony Gonzalez ritorna sui terreni preferiti: un pop magniloquente, molto anni ’80, a tratti eccessivo, ma capace di trasmettere forti sensazioni anche in mancanza di testi apprezzabili. Non saremo ai superbi livelli di “Hurry Up, We’re Dreaming” (2011), il capolavoro degli M83, contenente hit come Midnight City e Reunion, ma “Fantasy” è senza dubbio un passo avanti rispetto alle ultime versioni della band.

La preparazione al CD era stata particolare: dapprima Oceans Niagara pubblicata come singolo di lancio, poi la decisione di pubblicare l’intera prima facciata di “Fantasy” come EP… quasi un modo di “spoilerare” i fan! Le speranze di essere di fronte ad un buon disco erano comunque intatte, come del resto viene confermato dal CD esteso. Certo, i 66 minuti a volte sono superflui (Radar, Far, Gone, Deceiver), ma pezzi come Amnesia e Us And The Rest sono notevoli e ci fanno tornare alla memoria i migliori momenti di “Before The Dawn Heals Us” (2005). Da non sottovalutare anche Earth To Sea.

Non si ascolta un LP degli M83 per il contenuto lirico, questo è risaputo, ma va detto che in “Fantasy” Gonzalez è più presente del solito: “Do you miss the day of human revolution… Television, what a good way to learn about us, and the heirs of our land” (Dismemberment Bureau) sono i versi più significativi. Altrove abbiamo invece assurdi riferimenti fantascientifici: “Hello freak! Can you see the sky ladder by the limbo café leading to the green ray?” (Us And The Rest).

In conclusione, “Fantasy” è il miglior CD a firma M83 dai tempi di “Hurry Up, We’re Dreaming”: è stato messo da parte il pop zuccheroso e vuoto di “Junk” (2016), così come l’ambient di “DSVII”, per creare un prodotto magari nostalgico e autoreferenziale, ma non per questo sbagliato.

Voto finale: 7,5.

100 gecs, “10,000 gecs”

Il secondo CD del duo più stralunato d’America cambia radicalmente le carte in tavola per i 100 gecs: se nell’esordio “1000 gecs” (2019) eravamo di fronte ad un mix spericolato di pop e musica elettronica, sperimentale certo ma in un certo qual modo accessibile, “10,000 gecs” vira decisamente verso rock, punk e ska, con accenni di metal. Servono ripetuti ascolti per farsi un’idea coerente, ma la domanda se siamo di fronte a due geni o a due truffatori è più viva che mai.

La pubblicazione di “10,000 gecs” è stata influenzata da numerosi ritardi: il CD doveva originariamente uscire nella primavera del 2022, poi a causa di ripensamenti e posticipi vari siamo arrivati al 2023. Dylan Brady e Laura Les, ovvero i 100 gecs, hanno in effetti dato spazio a tutto il repertorio del punk rock anni ’00: basti sentire Dumbest Girl Alive e Hollywood Baby, due highlight del disco. In altri episodi (757) tornano i 100 gecs degli esordi, mentre Billy Knows Jamie flirta col metal e I Got My Tooth Removed è puro ska. Frog On The Floor, infine, pare una canzoncina dello Zecchino d’Oro in salsa pop punk.

Anche liricamente siamo di fronte a testi ambivalenti: da un lato versi volutamente provocatori (“I’m smarter than I look, I’m the dumbest girl alive”), dall’altro riferimenti da presunti intellettuali (“I’m dumb and hypocritical, I’m taking things too literal when it was hypothetical”, da 757). The Most Wanted Person In The United States contiene il seguente quadretto: “I got Anthony Kiedis suckin’ on my penis”.

L’ambizione e l’approccio “vale tutto” di Brady e Les può piacere o meno, ma è un qualcosa di assolutamente inconcepibile nella musica moderna che due disadattati che producono canzoni così incomprensibili ai più siano arrivati a tale livello di successo. Merito di TikTok e in generale dello streaming, che ha reso disponibile pressoché tutta la musica mai prodotta al mondo intero.

La domanda iniziale resta tuttavia valida: siamo di fronte a due pazzi geniali, oppure a due prodotti del nostro tempo, tanto effimeri che spariranno nel giro di qualche anno? Ai posteri l’ardua sentenza; possiamo dire che “10,000 gecs” è un album assurdo, divertente, esagerato, pretenzioso… tutto vero, ma dopo tanti ascolti ad A-Rock non lo abbiamo ancora inquadrato a pieno.

Voto finale: 7,5.

Fever Ray, “Radical Romantics”

Il terzo album del progetto Fever Ray, ovvero Karin Drejer, metà dei The Knife (l’altra era rappresentata dal fratello Olof), è un altro passo in avanti in una discografia sempre più sperimentale ed ambiziosa. Il tema principale, come si può intuire dal titolo, è l’amore: ma un tipo di amore allo stesso tempo carnale e freddo, pop e misterioso, alieno e umano. Non tutto gira a meraviglia, ma Fever Ray si conferma unica.

Il CD segue “Plunge” (2017), in cui Drejer aveva dato sfogo alle sue pulsioni più techno: prova ne sia IDK About You. In generale, “Radical Romantics” è definibile quasi come pop, non fosse che Fever Ray ogni volta sabota le proprie canzoni attraverso improvvise sterzate o suoni dissonanti: in Shiver, ad esempio, uno dei pezzi forti del lavoro, abbiamo un suono quasi di zanzara in sottofondo. In New Utensils, allo stesso modo, percepiamo voci del tutto aliene in sottofondo. Si sente l’influenza della produzione del fratello Olof, che sembra anticipare una reunion dei The Knife.

La prima metà è più riuscita della seconda, in cui purtroppo risalta nel modo sbagliato la conclusiva Bottom Of The Ocean: sette minuti di suoni fini a sé stessi, che lasciano l’amaro in bocca all’ascoltatore. Peccato, perché il CD contiene comunque buoni pezzi come la già menzionata Shiver, What They Call Us e Kandy.

Testualmente, come accennavamo, Fever Ray affronta il più classico dei temi pop, l’amore, da varie angolazioni: abbiamo annunci quasi pubblicitari (“Looking for a person with a special kind of smile”, da Looking For A Ghost), così come riferimenti alla discriminazione verso le persone omosessuali (“Did you hear what they call us?”, da What They Call Us). Vi sono però sparsi anche riferimenti al bullismo (“This is for Zacharias, who bullied my kid in high school… There’s no room for you and we know where you live!”, in Even It Out).

In generale, “Radical Romantics” non è il più bel lavoro a firma Fever Ray: questo posto spetta probabilmente all’eponimo esordio del 2009. Tuttavia, con questo disco Karin Drejer si è probabilmente liberata di molti fantasmi ed è pronta ad esplorare altri territori. Non ci resta che aspettare, con pazienza, il suo nuovo LP.

Voto finale: 7,5.