Recap: febbraio-marzo 2024

Febbraio è stato un mese un po’ interlocutorio, paradossalmente ricco di EP interessanti tanto quanto di veri e propri CD. Dal canto suo, A-Rock ha recensito i ritorni di Burial, Little Simz e MGMT. Inoltre, spazio a Brittany Howard, agli IDLES, a Helado Negro e a Shygirl.

Marzo, dal canto suo, ha visto la pubblicazione di numerosi album attesi da pubblico e critica in egual misura. Ad esempio, abbiamo recensito i nuovi lavori di Liam Gallagher & John Squire, Ariana Grande, Waxahatchee e Adrianne Lenker. In più, spazio alla collaborazione Future & Metro Boomin, ai Mannequin Pussy e agli Yard Act.

Adrianne Lenker, “Bright Future”

Bright Future

Il nuovo album solista di Adrianne Lenker, affermata solista e cantante dei Big Thief, è una piccola gemma. Il folk passionale della cantautrice americana è più diretto che mai, senza filtri e con produzione minimale: i 43 minuti di “Bright Future” non sono per tutti, ma portano Adrianne nell’Olimpo delle cantautrici d’Oltreoceano.

Spesso è addirittura difficile le parole di Lenker: Evol (che non per caso si legge “love” al contrario) è tutta costruita su giochi di parole e calembour. Altrove abbiamo canzoni più semplici, con versi spesso semplicemente giustapposti, come un flusso di coscienza (Real House). Entrambe le canzoni sono highlight del lavoro; ottime anche Sadness As A Gift e Fool, non per caso scelte come singoli di lancio dalla Nostra. Solo Candleflame e Cell Phone Says sono leggermente inferiori alla media, ma il mood per lo meno è mantenuto costante: malinconico, non depresso; pessimista, mai catastrofista. È un equilibrio sottile, che Adrianne riesce a conservare grazie anche ad una voce sottile ma molto espressiva.

“Bright Future”, malgrado il titolo, non è un CD spensierato; Adrianne Lenker affronta anzi temi complessi come la catastrofe climatica incombente (“Don’t it seem like a good time for swimming, before all the water disappears?”, contenuta in Donut Seam) e la fine di una relazione (“You have my heart, I want it back”, da Evol). Il verso più poetico è però il seguente: “Stars shine like tears on the night’s face” (Real House). Se a questa qualità lirica abbini belle canzoni, cosa può andare storto?

Voto finale: 8,5.

Mannequin Pussy, “I Got Heaven”

I got heaven

Il nuovo album della band di Philadelphia era molto atteso da pubblico e critica: i Nostri venivano da singoli potenti e da un percorso di crescita costante, culminato col precedente “Patience” (2019). “I Got Heaven” affina il lato commerciale del quartetto (ai tre storici membri Colins Regisford, Kaleen Reading e Marisa Dabice si è infatti aggiunta Maxine Steen), con risultati spesso molto convincenti. Paradossalmente, sono proprio alcuni dei brani più duri e diretti ad essere fuori fuoco.

I Mannequin Pussy hanno saputo produrre con “I Got Heaven” un CD molto equilibrato: all’indie rock della squisita title track e di Sometimes si affianca l’ossessiva Loud Bark e l’hardcore punk di OK? OK! OK? OK!, così come la raccolta I Don’t Know You. Addirittura, Nothing Like flirta con lo shoegaze. Come accennavamo, molte di queste canzoni sono highlight del lavoro; peccato che la parte finale pecchi di sostanza, con brani inferiori come Of Her e Aching.

In generale, al tono carico del lavoro fanno da contraltare liriche a volte ironiche (“Just tell me what you need!” canta spossata Dabice in Aching), altre volte sfacciate (“Oh, I’m an angel, I was sent here to bring you company. And what if Jesus himself ate my fucking snatch?”, da I Got Heaven). I temi di “I Got Heaven”, come confessato dalla band in varie interviste, sono stati ispirati da un momento di grandi trasformazioni personali, tra rottura sentimentali e cambi di abitazione che hanno rotto la routine dei membri dei Mannequin Pussy.

Quello che, più di tutto, emerge è però il senso di comunità che “I Got Heaven” vuole scatenare nel pubblico; le canzoni sono fatte per essere cantate o urlate con i propri amici, oppure con un pubblico di estranei ad un concerto. In questi tempi così grami, non è forse questo lo scopo di un buon disco rock? “I Got Heaven” non sarà perfetto, ma i 30 minuti passati in sua compagnia non lasciano spazio al filler o a momenti morti. Non un pregio scontato.

Voto finale: 8,5.

Brittany Howard, “What Now”

what now

Il secondo album solista di Brittany Howard, cantante degli Alabama Shakes, è un ottimo compendio della musica soul più recente così come delle origini del genere (Stevie Wonder su tutti). Non si pensi, tuttavia, che “What Now” sia unicamente riconducibile solo ad un genere: house (Prove It To You), psichedelia (Red Flags) ed echi di Prince (Power To Undo) fanno capolino in una tracklist magari incoerente, ma di alta qualità.

Se il precedente suo lavoro solista “Jaime” (2019) si focalizzava sui temi razziali e sociali, percepiamo “What Now” come un CD meno impegnativo, ma non per questo frivolo: Brittany accenna infatti a domande esistenziali (“But will I know? Will I feel it? The first moment that I see it?”, Earth Sign), così come confessioni di fragilità (“You don’t see my injury, you don’t see the energy it takes me”, Every Colour In Blue). Possiamo dire quindi che questo è un album maggiormente introspettivo rispetto a “Jaime”.

I momenti indimenticabili non mancano: la title track e Red Flags sono canzoni ben strutturate e facilmente faranno la fortuna live di Howard. Stupisce l’accenno house di Prove It To You, del tutto inatteso; infine, come già accennato, Prince fa capolino in Power To Undo. Convincono meno le tracce eccessivamente lente, come To Be Still e Samson.

In conclusione, “What Now” è la migliore versione di Brittany Howard solista. Psichedelia, funk e soul sono gli architravi di un lavoro ben fatto e a tratti immacolato, malgrado alcune incoerenze che minano il risultato finale.

Voto finale: 8.

Waxahatchee, “Tigers Blood”

Tigers Blood

Il nuovo album di Katie Crutchfield col nome d’arte di Waxahatchee la trova pronta a continuare il percorso intrapreso con “Saint Cloud” (2020): un suono indebitato con il country, decisamente lontano dall’indie rock viscerale delle origini. Non parliamo necessariamente di un passo indietro; anzi, “Tigers Blood” perfeziona il suono di “Saint Cloud” e nei suoi momenti migliori è irresistibile.

A dare manforte a Katie sono Brad Cook alla produzione, già coinvolto in “Saint Cloud”, e il cantautore MJ Lenderman, che suona la chitarra in tutte le canzoni del CD e fornisce la propria voce in quattro di esse. I risultati, come dicevamo, nei tratti migliori di “Tigers Blood” sono ottimi: Bored e 3 Sisters sono ovvi highlight del lavoro. Buona anche Right Back To It. Leggermente inferiori sono The Wolves e Burns Out At Midnight, ma allo stesso tempo mantengono il mood sereno del lavoro.

Liricamente, Crutchfield si conferma abile a cogliere lo spirito dei tempi e di quello che accade nella propria vita in poche parole, al pari dei grandi parolieri country del passato e del presente, da Tom Petty e Lucinda Williams a Townes Van Zandt. Eccone alcuni esempi: “I get caught up in my thoughts, for lack of a better cause” (Lone Star Lake), “All my life I’ve been running from what you want” (3 Sisters), “There’s a lock on the door that costs more than my car, babe” (The Wolves).

In conclusione, “Tigers Blood” non è un album perfetto, ma manca davvero poco a Waxahatchee per scrivere il suo manifesto definitivo e, probabilmente, uno dei migliori album country della storia recente della musica. Katie Crutchfield si conferma cantautrice di livello superiore, pronta a spiccare definitivamente il volo.

Voto finale: 8.

MGMT, “Loss Of Life”

loss of life

Ben Goldwasser e Andrew VanWyngarden ci hanno abituato a pubblicare nuovi album ad un ritmo estremamente lento, specialmente in un panorama musicale che sembra spaventato da una sorta di horror vacui. Basti pensare che tra 2013 e 2024 hanno pubblicato come MGMT la miseria di tre CD di inediti.

Tuttavia, il progetto MGMT non ha perso popolarità tra il pubblico; anzi, l’inaspettato successo su TikTok di Little Dark Age ha garantito un ringiovanimento della fanbase del duo americano. “Loss Of Life”, dal canto suo, è un album pop, ricco di ballate, ma non propriamente mainstream: le stranezze di suite come Nothing Changes e della title track sono tipici stratagemmi degli MGMT. Dall’altro lato, Mother Nature e Bubblegum Dog sono due pezzi incontestabilmente riusciti ed entreranno probabilmente nella lista dei brani preferiti da parte dei fan del gruppo. Più deboli, invece, Phradie’s Song e Loss Of Life (Part 2).

Anche liricamente ci troviamo sullo stesso piano: frasi ironiche come “Come take a walk with me down billionaire’s row, trying to keep our balance over zero” (Mother Nature) e “No one calls me the gangster of love” (I Wish I Was Joking) sono associate ad altre molto più reali, fin quando la melodia si impegna a smentire il narratore (è questo il caso di Nothing Changes, in cui il titolo viene spazzato via dai numerosi cambi di ritmo). Menzione, infine, per Christine And The Queens, che solleva i risultati di una canzone altrimenti prevedibile come Dancing In Babylon.

In conclusione, “Loss Of Life” non è un LP perfetto, ma conferma i MGMT come leader della scena psichedelica d’Oltreoceano. Lontani sono i tempi di successi come Time To Pretend e Kids; non per questo, però, dobbiamo sottovalutare Ben Goldwasser e Andrew VanWyngarden, che si confermano una volta di più artisti imprevedibili.

Voto finale: 8.

Ariana Grande, “eternal sunshine”

eternal sunshine

Avevamo un po’ perso le tracce di Ariana Grande negli ultimi anni: risaliva al 2020 il suo ultimo CD, “Positions”, in cui la classe 1993 si apriva a influenze R&B e innovava il suo stile, in passato basato su ritmi EDM e trap, con risultati magari controversi, ma intriganti.

Quattro anni sono un periodo di tempo lunghissimo per una cantante che aveva pubblicato sei LP tra 2013 e 2020. Quattro anni ricchi di avvenimenti a livello mondiale (basti citare Covid-19, guerra in Ucraina e Medio Oriente), così come a livello personale: Ariana si è infatti sposata e l’anno scorso ha divorziato, iniziando a girare il film Wicked ed innamorandosi dell’attore protagonista, Ethan Slater.

“eternal sunshine” si propone come concept album: il tema centrale è la separazione di Ariana Grande dall’ex marito Dalton Gomez. Ciò emerge con maggiore prepotenza in certe canzoni (yes, and?, bye), mentre altrove abbiamo accenni all’astrologia (Saturn Returns Interlude). Alcune liriche sono ironiche (“Your business is yours and mine is mine… Why do you care so much whose dick I ride?”, presa da yes, and?), altre amare (“How can I tell if I’m in the right relationship?”, in intro (end of the world)), ma in generale il tono delle canzoni e dei testi è allegro, pronto alla rinascita.

Le canzoni migliori del lavoro sono le trascinanti yes, and? e we can’t be friends (wait for your love), non a caso scelte come singoli di lancio del disco. Ottima anche bye, che ricorda la migliore Mariah Carey. Inferiori alla media invece la troppo breve Saturn Returns Interlude e l’ovvia imperfect for you. In generale, i 35 minuti di “eternal sunshine” scorrono benissimo e lo rendono uno dei migliori LP a firma Ariana Grande.

Voto finale: 7,5.

IDLES, “TANGK”

tangk

Il quinto album della band britannica prometteva di essere un momento cruciale per una carriera di successo, soprattutto Oltremanica, che sembrava avere imboccato una strada quasi sperimentale col precedente “Crawler” (2022). Non stiamo parlando di un atto rivoluzionario come “Achtung Baby” (1991) per gli U2, oppure “Kid A” (2000) per i Radiohead; allo stesso tempo, “Crawler” aveva riproposto gli IDLES in chiave art rock, con risultati spesso intriganti.

“TANGK” prosegue nel percorso intrapreso nel precedente CD, grazie anche all’aiuto di produttori esterni di successo come Kenny Beats e Nigel Godrich. Ad esempio, non avremmo mai potuto ascoltare IDEA 01 in “Brutalism” (2017), l’esordio del gruppo. Non tutti gli episodi di “TANGK” convincono appieno, ma nel complesso siamo di fronte ad un lavoro coraggioso, che apre interessanti prospettive per Joe Talbot e compagni.

Se c’è un problema, sono le liriche, a volte fuori contesto (Hall & Oates è un’ode all’amicizia, ma i due personaggi citati si disprezzano nella vita reale), altre semplicemente fuori luogo (“Fuck the king”, urlato alla fine di Gift Horse). In generale, su questo aspetto gli IDLES devono maturare ed imparare a suonare più raffinati e sfumati: meno slogan e maggiore profondità gioverebbe al percorso musicale intrapreso dai Nostri.

Questo è davvero un peccato, perché canzoni efficaci come Gift Horse e Dancer (quest’ultima vanta la collaborazione degli LCD Soundsystem) sono highlight di un’intera carriera. Buone anche IDEA 01 e POP POP POP; meno riuscita A Gospel.

In conclusione, “TANGK” pare un album di transizione verso lidi inesplorati per Talbot e co.; non parliamo di un capolavoro, ma il CD apre rotte davvero interessanti per il gruppo, soprattutto in tema art rock ed elettronica. Il prossimo LP promette di essere dirimente per il futuro degli IDLES.

Voto finale: 7,5.

Yard Act, “Where’s My Utopia?”

where's my utopia

Il secondo album del complesso britannico resta ancorato alle radici post-punk degli Yard Act, ma introduce elementi nuovi, tra cui dance ed hip hop, che rendono la ricetta più variegata rispetto all’esordio “The Overload” (2022). Allo stesso tempo, non tutti gli esperimenti funzionano, soprattutto quelli a base autotune non convincono, ma va ammirato il coraggio del gruppo capitanato da James Smith.

Il lavoro affronta post-punk (A Vineyard For The North), dance (The Undertow), funk (We Make Hits) e varie altre sfumature con buona qualità media: non scontato per un gruppo che sembrava inquadrato in un minimalismo intrigante, ma alla lunga vincolante. Peccato che alcune buone melodie (Petroleum) siano parzialmente rovinate dall’uso dell’autotune, che poco si integra col tono di Smith. Si sente molto, in questo, la mano del produttore Remi Kabaka Jr., in passato collaboratore dei Gorillaz; in effetti, il risultato finale è un mix frizzante tra LCD Soundsystem, Beck e Pulp.

Abbiamo, in retrospettiva, molte buone tracce, come An Illusion e Dream Job, affiancate ad altre inferiori, da Fizzy Fish a. La coerenza non è il forte di “Where’s My Utopia?”, ma è innegabile che parliamo di un CD divertente e dall’elevato replay value. Capitolo a parte merita la lunghissima Blackpool Illuminations, oltre sette minuti di spoken word, che inevitabilmente dividerà il pubblico tra adoratori e scettici.

Gli Yard Act si confermano band talentuosa e, allo stesso tempo, pronta ad esplorare generi musicali lontani dalle loro passioni originarie. Il primo CD per una major non è un successo immediato, malgrado una canzone si intitoli ironicamente We Make Hits; allo stesso tempo, non possiamo dire che si siano venduti, come alcuni hanno accennato. Semplicemente, gli Yard Act hanno voluto provare qualcosa di diverso: speriamo che la prossima volta i risultati siano più vicini all’odissea dance-punk di The Trench Coat Museum, singolo del 2023 che non ha trovato spazio in “Where’s My Utopia?”, ad oggi la migliore canzone a firma Yard Act.

Voto finale: 7,5.

Burial, “Dreamfear / Boy Sent From Above”

dreamfear

Il nuovo EP del leggendario produttore inglese riprende una parte della sua estetica che sembrava ormai messa da parte: la techno più spinta. Basti ricordare che le ultime due pubblicazioni di rilievo del Nostro, “Antidawn” e “Streetlands” (entrambe del 2022), erano ben posizionate su sonorità ambient e più riflessive, per quanto l’inquietudine delle prime pubblicazioni di William Bevan aka Burial emergesse qua e là.

“Dreamfear / Boy Sent From Above”, come indica il titolo, si compone di due suite, idealmente i due lati di un vinile: Dreamfear è un lungo pezzo che idolatra la cultura rave dei primi anni ’00, quelli di maggior gloria di Burial e della scena elettronica britannica. Boy Sent From Above, pur rimanendo nello stesso range sonoro, è più ballabile.

Come sempre resta difficile capire i testi di Burial, ma alcune interiezioni rimangono in testa: “I am the high one, I am the lord of ecstasy” si sente proclamare all’inizio di Dreamfear. Qui, come altrove, emerge una sottile lode dell’uso di droghe: “This love, like a drug”, “Once it gets inside of you it takes over the bloodstream” e “There was something else in the drugs” ne sono altri esempi. Dal canto suo, Boy Sent From Above contiene testi più evocativi e meno subdoli, come “We were running through the city, in the dark”.

“Dreamfear / Boy Sent From Above” è un EP davvero di ottima fattura: Burial si conferma attore imprescindibile della scena elettronica moderna. Preferiamo questo suo lato scatenato e danzereccio a quello contemplativo delle ultime uscite; vedremo in futuro la sua musa dove lo condurrà.

Voto finale: 7,5.

Future & Metro Boomin, “WE DON’T TRUST YOU”

we don't trust you

Il primo album collaborativo tra Future, uno dei pesi massimi della scena trap statunitense, e Metro Boomin, produttore hip hop di grido, va percepito come un evento, almeno stando ai due protagonisti. Aggiungiamo un roster di ospiti di spessore, che spazia da The Weeknd a Kendrick Lamar, passando per Playboi Carti e Travis Scott. Tutto era pronto per un trionfo, o per un flop colossale: vie di mezzo non sembravano possibili.

In realtà, “WE DON’T TRUST YOU” contiene un buon numero di pezzi efficaci, pochi fiaschi e alcune canzoni che sono mediocri e nulla più; pertanto, il voto conclusivo è una perfetta media. A vantaggio del risultato finale, notiamo un Future finalmente coinvolto e voglioso di far vedere quanto vale, a differenza di alcuni suoi CD recenti. Metro Boomin, dal canto suo, si conferma creativamente inarrestabile, spaziando dall’hip hop classico alla trap, sempre con un occhio “cinematografico”  alle sue basi.

Liricamente, quando parliamo di Future, è chiaro che i temi saranno: sesso, droga, la vita da re che il Nostro conduce. Abbiamo però anche una canzone prettamente dedicata a umiliare due rapper rivali dei due autori e di Kendrick Lamar, Like That: la migliore del lotto, numero 1 nella classifica Billboard e con un verso di Kendrick devastante, da cui estraiamo i seguenti riferimenti: “Fuck sneak dissin’, first person shooter, I hope they came with three switches… Nigga, Prince outlived Mike Jack, motherfuck the big three, nigga, it’s just big me”.

I riferimenti della rabbia di Kendrick sono Drake e J. Cole; i tre sono spesso associati come i “big three” della scena rap internazionale. Beh, K-Dot non la pensa allo stesso modo e non esita a farlo presente agli altri due. Da sottolineare i punti aperti verso First Person Shooter, successo recente del duo J. Cole/Drake; e al fatto che Prince (Kendrick in questo caso) ha vissuto più a lungo di Michael Jackson (Drake, che spesso si paragona, a livello di fama, a MJ). La risposta di J. Cole, 7 Minute Drill, è stata da molti catalogata come flop colossale; vedremo se Drake risponderà a tono.

Oltre a Like That, altri brani efficaci sono Young Metro e Type Shit. Il problema è che tutte e tre le tracce sono inserite nella parte iniziale del lavoro, creando una tracklist sbilanciata. Non è un caso che alcuni dei brani più deboli, infatti, da Magic Don Juan (Princess Diana) a Seen It All e WTFYM, sono situati verso la fine di “WE DON’T TRUST YOU”.

In conclusione, il successo riscosso dal lavoro di Future e Metro Boomin è tutto sommato meritato e pare che porterà alla pubblicazione del seguito, “WE STILL DON’T TRUST YOU”, nel giro di poche settimane. Vedremo se i risultati saranno confortanti come il primo volume; di certo, sia Future che Metro Boomin hanno confermato la loro posizione di pilastri della scena hip hop.

Voto finale: 7,5.

Helado Negro, “PHASOR”

phasor

Il nuovo album di Roberto Carlos Lange come Helado Negro vira decisamente verso la musica d’ambiente. Le 9 tracce di “PHASOR” sono infatti facili da ascoltare e da assimilare; nondimeno, nessuna riesce davvero a stagliarsi sulle altre, rendendo il progetto molto uniforme e coerente, ma a tratti monotono.

I lettori di A-Rock potrebbero ricordare che Helado Negro era entrato nei nostri radar con “This Is How You Smile” (2019), un CD sempre dolce nelle sonorità, ma che trattava temi profondi come l’identità e la difficoltà ad integrarsi. “PHASOR”, dal canto suo, vede suoni meno incentrati sul groove e maggiormente sulla contemplazione, come accennavamo prima. Strutturalmente, l’album si sviluppa in 35 minuti, in cui si alternano pezzi in spagnolo (Colores Del Mar, Flores) ad altri in inglese (I Just Wanna Wake Up With You, Out There).

Liricamente, Lange non lesina liriche allusive, come: “Un policía me pegó me dejó por muerto y le dije ¿Quién eres tú?”, in LFO (Lupe Finds Oliveros); tuttavia, il tono del lavoro si mantiene generalmente rilassato (“And I’ll go outside, looking at the moon way too long”, da Best For You And Me), fattore che può essere un pro ma anche un contro. I migliori brani sono proprio Best For You And Me e la più mossa Wish You Could Be Here, mentre Echo Tricks Me e Out There sono fin troppo monotoni.

In conclusione, “PHASOR” pare un LP di transizione per Helado Negro: breve, non troppo sofisticato, ma non per questo trascurabile dai fan di Roberto Carlos Lange. Ideale per essere usato come musica di sottofondo quando si studia o lavora, “PHASOR” non passerà alla storia, ma i 35 minuti passati in sua compagnia non sono certo sprecati.

Voto finale: 7.

Shygirl, “Club Shy”

club shy

Il nuovo EP della cantante e produttrice britannica continua il percorso intrapreso con l’esordio “Nymph” (2022), virando però verso dance e house: diciamo che il revival degli anni ’00 procede spedito, anche grazie a figure come Shygirl. Non siamo di fronte a qualcosa di radicale, ma la Nostra si conferma uno dei talenti più brillanti della scena elettronica d’Oltremanica.

I 16 minuti scarsi di “Club Shy” rappresentano la durata giusta: siamo infatti di fronte a pezzi perfetti per essere suonati nelle discoteche passata una certa ora, con testi espliciti e riferimenti alla dance di Madonna e Charli XCX, tra le altre. I migliori episodi sono 4eva (con grande collaborazione di Empress Of) e la trascinante thicc, mentre sotto media resta mute.

In conclusione, “Club Shy” è un buon intermezzo verso il nuovo LP vero e proprio di Blane Muise (questo il vero nome di Shygirl): ad A-Rock siamo davvero impazienti di vedere i prossimi sviluppi di una carriera finora buona, ma che lascia intravedere ben altro potenziale.

Voto finale: 7.

Liam Gallagher & John Squire, “Liam Gallagher & John Squire”

liam gallagher john squire

Il primo album collaborativo tra l’ex frontman degli Oasis e l’ex chitarrista degli Stone Roses è un interessante mix di psichedelia e blues, due generi che non associamo facilmente a nessuno dei due artisti coinvolti. Non parliamo di un CD perfetto, ma nei suoi momenti migliori “Liam Gallagher & John Squire” regala gioie.

Liam, da par suo, aveva proclamato sui social che questo era il disco migliore della storia della musica dai tempi di “Revolver” dei Beatles (1966). L’umiltà è sempre stata una sua qualità, nulla da aggiungere. A parte gli scherzi, “Liam Gallagher & John Squire” contiene due canzoni che faranno la fortuna live del duo: Just Another Rainbow e Mars To Liverpool contengono alcuni dei momenti migliori dai tempi dello scioglimento delle due band principali della carriera di Liam e John.

Non sempre altrove la qualità resta la stessa. Ad esempio, Make It Up As You Go Along e I’m A Wheel sono prevedibili e non aggiungono nulla al lavoro; allo stesso tempo, il mood costante e la coerenza della struttura, uniti ad un minutaggio accettabile (39 minuti), fanno del CD un prodotto di discreta fattura.

In generale, non sempre le collaborazioni tra pezzi grossi funzionano: basti pensare a “Lulu” (2011), il colossale flop dei Metallica e Lou Reed. “Liam Gallagher & John Squire” mantiene alta la bandiera del britpop, con pizzichi di blues e psichedelia che arricchiscono la ricetta. Nessun “Revolver”, caro Liam, ma neanche un fiasco.

Voto finale: 6,5.

Little Simz, “Drop 7”

Sono stati anni impegnativi per Little Simz, quelli appena passati: nel 2021 il suo album “Sometimes I Might Be Introvert” ha fatto gridare in molti al miracolo, compresi noi di A-Rock, facendole vincere un Mercury Prize. Il successivo CD, “NO THANK YOU” (2022), era sembrato più un modo per chiudere una parentesi che per aprire un nuovo capitolo. “Drop 7” arriva pertanto in un momento delicato per l’artista inglese.

L’EP è un esperimento concepito in soli tre giorni da Simbiatu Abisola Abiola Ajikawo: non siamo quindi di fronte ad un vero e proprio testamento artistico, quanto ad un’esplorazione di dove si può spingere il suo hip hop duro e allo stesso tempo dolce e fragile.

Le basi sono prevalentemente elettroniche (Torch, SOS), con interessanti intarsi in portoghese (Fever): dispiace che il lavoro duri solo 15 minuti scarsi, dato che rende molto difficile farsi un’idea di come suonerebbe un intero CD con le medesime sonorità. In ogni modo, Little Simz si conferma voce unica nel panorama rap contemporaneo.

I brani migliori sono Mood Swings e Far Away, mentre sono sotto la media del lavoro Power, troppo abbozzata, e I Ain’t Feelin It. “Drop 7”, lo ribadiamo, non va preso come una battuta d’arresto in un percorso di crescita ininterrotto da parte di Little Simz; rappresenta piuttosto un passatempo, sia per la Nostra che per i suoi fan. Non vediamo l’ora di vedere il suo prossimo LP vero e proprio come suonerà.

Voto finale: 6,5.

Beyoncé ha domato anche il country

A ormai due settimane dalla pubblicazione di uno degli album più attesi dell’anno, possiamo dirlo: Beyoncé con “COWBOY CARTER” ha creato un disco country di enorme impatto. Eccessivamente lungo, senza dubbio, e non tutto gira alla perfezione. Nei suoi momenti migliori, tuttavia, Beyoncé ha riaffermato la sua posizione di stella a tutto tondo dello scenario pop, capace di spaziare tra generi diversissimi (pop, R&B, dance, house, country) con ottimi risultati. A ciò aggiungiamo la solita maestosa presenza in termini di voce e tematiche affrontate e abbiamo un CD colossale, che farà parlare di sé ancora per molto tempo.

La diva texana non ha risparmiato nella produzione del CD: abbiamo ospiti di spessore assoluto, sia veterani del country (Dolly Parton, Willy Nelson) che stelle del pop (Post Malone, Miley Cyrus), nonché figure rilevanti per la musica contemporanea, oscurate dallo star system passato e presente (su tutte Lynda Martell). Anche alla produzione abbiamo figure ben note, come Shawn Everett, Hit-Boy e John Batiste. A tutto questo aggiungiamo le cover di due canzoni immortali come Blackbird (originale dei Beatles) e Jolene (creata da Dolly Parton), a dimostrare la completa padronanza del genere da parte della Nostra.

Cowboy Carter

Fatte queste doverose premesse, la domanda può sorgere spontanea: com’è “COWBOY CARTER”? Non parliamo di un album perfetto ed intoccabile: la finta stazione radio KNTRY Radio Texas, condotta da Wille Nelson, è un divertissement ma nulla più. Canzoni come FLAMENCO e SPAGHETTII non entrano perfettamente nel mood del CD. Soprattutto, in un disco di 78 minuti, composto da 27 canzoni, è normale incontrare momenti di stanca.

Tutto questo era probabilmente messo in conto da Beyoncé, che riesce a bilanciare tutto con canzoni bellissime come AMERIICAN REQUIEM, DAUGHTER e 16 CARRIAGES. Tutte e tre entreranno tra i brani preferiti anche live; non dimentichiamo poi YA YA e II HANDS II HEAVEN. Menzione per la magnifica voce della Nostra, che pare migliorare ad ogni pubblicazione: sia il suo registro alto che quello basso sono punti di forza in tutte le canzoni.

Liricamente, Beyoncé è una donna in missione: far scoprire le radici nere della musica, presenti pressoché in ogni genere. Se con “RENAISSANCE” (2022) avevamo indagato il mondo black e queer alla base della musica dance, “COWBOY CARTER” omaggia molto maestri di origine afroamericana, attivi soprattutto nel folk e nel country. Del reato, ricordiamo due dichiarazioni fatte dall’artista in anticipazione al CD: “questo non è un disco country, è un disco di Beyoncé” e “questo lavoro trae origine da un momento del passato in cui non sono stata a mio agio”. Il riferimento di quest’ultima frase è ai Country Music Awards del 2016, quando Beyoncé venne fischiata da alcune parti del pubblico presente a causa della sua “non conformità” alla tipica donna che canta canzoni country. Beh, possiamo dire che con “COWBOY CARTER” la Nostra ha avuto la vendetta che voleva.

In conclusione, “COWBOY CARTER” si aggiunge ad un’eredità di sempre maggior peso e prestigio: Beyoncé è una star a tutto tondo, capace di esprimere il suo potenziale in una moltitudine di generi. Diciamo che, se la prossima volta adopererà un maggior editing alla tracklist definitiva del terzo atto della trilogia iniziata con “RENAISSANCE” e proseguita con “COWBOY CARTER”, avremo un lavoro ancora migliore.

Voto finale: 8.

Kanye West: vale più la musica o la polemica?

“VULTURES 1”, l’esordio del duo ¥$, formato da Kanye West e Ty Dolla $ign, merita un approfondimento a parte. Ad A-Rock ne parliamo oggi, più di un mese dopo l’uscita, per evitare ogni polemica estemporanea e nata sul momento. Kanye West, che ora si fa chiamare Ye, è uno dei rapper più apprezzati degli ultimi vent’anni, con una personalità fiammeggiante, a cavallo tra genialità e pazzia. Indimenticabili restano lavori di altissima fattura, come “Late Registration” (2005), “My Beautiful Dark Twisted Fantasy” (2010) e “The Life Of Pablo” (2016).

Allo stesso tempo, gli ultimi anni hanno visto Kanye andare incontro a una selva di polemiche, alimentate per lo più dalle sue stesse affermazioni: antisemitismo, simpatia per i suprematisti bianchi e per Hitler, frasi contro movimenti come Black Lives Matter e a favore di Donald Trump hanno portato molti ad abbandonarlo, convinti che la pazzia avesse avuto la meglio sulla sua fragile psiche. Lui stesso ha confessato di essere bipolare, circostanza che spiega almeno in parte alcuni suoi comportamenti. La domanda, volendo separare le opinioni personali dall’arte, è delicata: questa sua frenesia pubblica ha danneggiato la sua musica?

vultures 1

La risposta, purtroppo, è affermativa. “VULTURES 1” non è un cattivo CD, anzi è decisamente migliore di “Donda 2” (2022), il secondo LP dedicato alla defunta madre del Nostro. Allo stesso tempo, lontani sono i tempi non solo dei tre album nominati all’inizio, ma anche di “Graduation” (2007) e “Yeezus” (2013), quest’ultimo peraltro chiara ispirazione di “VULTURES 1”. Malgrado la presenza del fidato Ty Dolla $ign e di artisti del calibro di Freddie Gibbs (BACK TO ME), Travis Scott (FUK SUMN) e Quavo (PAPERWORK), il lavoro suona a tratti incoerente e i testi sono in buona parte spazzatura.

Giusto tre melodie restano impresse: l’iniziale STARS e BURN, seppur di durata inferiore ai due minuti, sono perle in un CD altrove fin troppo sfidante. Carica al punto giusto poi CARNIVAL, che contiene sample presi dalla curva dell’Inter (!). Il problema è, come già accennato, che in certi tratti il lavoro suona appena abbozzato; PAPERWORK, HOODRAT e la title track non avrebbero mai superato il controllo qualità del Kanye migliore.

Capitolo a parte meritano le liriche: presentiamo qua solo un breve catalogo illustrativo. “You don’t like it? That’s your loss, your opinion don’t change the show cost… Let me know what these hoes cost” (DO IT), “I hit it from the back… Whore, whore” (HOODRAT), “How I’m anti-Semitic? I just fucked a Jewish bitch… She Russian, I beat up the pussy for Ukraine” (la title track) sono le peggiori, soprattutto quest’ultima è davvero inaccettabile.

In conclusione, “VULTURES 1” contiene alcune buone canzoni e altre che floppano: analisi semplice, ma non per questo errata. In retrospettiva, potrebbe essere visto come l’ultimo CD accettabile a firma Kanye West; oppure, nella migliore delle ipotesi, come l’inizio della rinascita. Purtroppo, più passa il tempo e più improbabile diventa questa seconda opzione. Anche i fan più accaniti di Ye devono affrontare la verità: il cantante di oggi non è lo stesso di dieci-quindici anni fa. Il dubbio che noi, come pubblico assetato di gossip, abbiamo in parte alimentato il processo di disintegrazione di uno dei maggiori geni musicali contemporanei, fa accapponare la pelle.

Voto finale: 6,5.

Rising: The Last Dinner Party

Le The Last Dinner Party.

Ritorna la rubrica di A-Rock dedicata ai cantanti emergenti. Quest’oggi analizziamo un gruppo tutto al femminile, The Last Dinner Party, che Oltremanica è considerato la next big thing della scena rock.

The Last Dinner Party, “Prelude To Ecstasy”

Un quintetto femminile che si rifà a David Bowie e Roxy Music capace di far parlare di sé l’intera critica britannica? Beh, il mondo sta decisamente cambiando, verrebbe da dire, e in meglio. Finalmente, infatti, anche il mondo femminile è adeguatamente rappresentato nel rock e, per di più, con dei maestri di altissimo livello.

Va detto che The Last Dinner Party era un nome già inflazionato da anni: sin dal 2021 le cinque componenti erano state notate dagli esperti di settore e, nel corso degli anni successivi, avevano aperto concerti per Florence + The Machine e Hozier, tra gli altri. Aiutate alla produzione da James Ford (in passato collaboratore di Arctic Monkeys e Blur), le The Last Dinner Party hanno pubblicato un LP davvero riuscito.

“Prelude To Ecstasy” è, infatti, un CD raffinato, più maturo di quello che ci aspetteremmo dall’esordio di un giovane gruppo. La base ritmica è solida, ma mai eccessiva; le voci si mescolano abilmente una nell’altra; le canzoni, soprattutto, sono spesso delle perle. Tra le migliori menzioniamo Burn Alive e On Your Side, la prima più trascinante e la seconda più raccolta; non tralasciamo nemmeno Beautiful Boy, Sinner e Nothing Matters. Invece inferiori alla media restano Giuja e la title track, troppo brevi.

“Prelude To Ecstasy” correva il rischio di essere fin troppo atteso e di tradire le altissime aspettative di pubblico e critica; in realtà si tratta di un CD così coeso e affascinante in molte sue sfumature che è difficile parlarne male. Sì, siamo di fronte a cinque talentuose musiciste e le The Last Dinner Party hanno, con ogni probabilità, ancora molte pagine da scrivere.

Voto finale: 8.

Recap: gennaio 2024

Eccoci arrivati al primo recap del 2024. Gennaio è solitamente un mese tranquillo, ma quest’anno abbiamo già notato pubblicazioni di rilievo. A-Rock ha infatti recensito i nuovi CD di artisti del calibro di Green Day, Kali Uchis e The Smile. In più, spazio a 21 Savage, Ty Segall e Courting. Buona lettura!

The Smile, “Wall Of Eyes”

wall of eyes

Il secondo album del gruppo formato da Thom Yorke, Jonny Greenwood e Tom Skinner conferma i The Smile non tanto come una versione light dei Radiohead, quanto come una creatura a sé stante, più selvaggia della “madre” ma altrettanto affascinante. “Wall Of Eyes” è altrettanto riuscito rispetto all’esordio “A Light For Attracting Attention” (2022): è vero, c’è un maggiore indugio per il post rock rispetto al rock alternativo e più basico del precedente CD, ma siamo di fronte ad un lavoro di altrettanta, ottima fattura.

Jonny Greenwood è specialmente ispirato in “Wall Of Eyes”: dalla bossa nova della title track, passando per il prog di Read The Room alla potente schitarrata finale di Bending Hectic, non lo sentivamo così carico dai tempi di “In Rainbows” (2007). L’unico momento inferiore del lotto è I Quit, eccessivamente lunga e monotona, ma per il resto le nove canzoni del CD scorrono benissimo e formano un disco art rock di alto livello.

Liricamente, l’Italia è protagonista di varie tracce del lavoro: Friend Of A Friend parte evocando noi che cantavamo dai balconi durante la parte più dura del lockdown del 2020, per poi virare su una polemica su chi abbia beneficiato dal Covid (leggasi: i politici corrotti). Bending Hectic, dal canto suo, parla di un suicidio, avvenuto sulla strade italiane, dove una macchina si infrange sul guardrail e precipita sui dirupi. Wall Of Eyes invece critica la passività di fronte ai cellulari di molti di noi: “You will go behind a wall of eyes of your own device… is that still you with the hollow eyes?”.

In conclusione, “Wall Of Eyes” conferma una volta di più il talento generazionale di Yorke e Greenwood, capaci di comporre melodie fragili, evocative o abrasive a seconda del momento e delle esigenze, con una padronanza tecnica fuori dal comune. Tom Skinner, dal canto suo, si conferma ottima spalla ritmica del duo. Speriamo davvero che il nuovo, misterioso LP dei Radiohead, tanto evocato ma ancora assente, trovi presto la luce.

Voto finale: 8,5.

Kali Uchis, “ORQUÍDEAS”

orquideas

Il quarto album di Kali Uchis contiene alcune delle sue tracce più splendenti: ¿Cómo Así?, Igual Que Un Ángel e Te Mata sono highlight assoluti, tra le migliori della sua produzione. Il CD scorre piacevolmente da cima a fondo, con atmosfere seducenti e lussuose, creando un mood davvero affascinante. Siamo di fronte al suo miglior album? Difficile dirlo con certezza assoluta, ma “ORQUÍDEAS” certamente è ad oggi il miglior LP pop del 2024.

La dedica del lavoro alle orchidee è dovuta al fatto che questo fiore è un simbolo nazionale della Colombia, terra di origine della cantautrice. Le orchidee sono anche un simbolo di sensualità, fattore chiave di molte melodie di “ORQUÍDEAS”. Il lavoro si compone di 14 tracce, per 44 minuti di durata; la prima parte pare generata da una sola sessione di registrazione, tanto che le canzoni prendono spunto una dall’altra, una migliore della precedente. La magia finisce con la sorprendente Te Mata, pezzo peraltro di alto livello, degno della miglior tradizione latina.

La seconda parte del CD perde un po’ di mordente, con brani minori come Labios Mordidos e No Hay Ley Parte 2, ma i risultati restano comunque accettabili. In generale, colpisce l’uniformità del CD, che però non sfocia mai nella monotonia: un equilibrio molto difficile da ottenere.

In conclusione, “ORQUÍDEAS” è il primo grande LP del 2024: Kali Uchis si conferma nome affidabile della scena pop, pronta a diventare una vera popstar. Anche se poi è proprio lei a cantare, in uno dei versi più iconici del lavoro, “No soy pop star pero si soy internacional” (Heladito). Di certo il futuro sembra sorridere alla Nostra, che ha anche annunciato la maternità. Ad A-Rock siamo davvero impazienti di vedere i suoi prossimi passi nel mondo della musica.

Voto finale: 8.

Ty Segall, “Three Bells”

three bells

Il nuovo album del prolifico garage rocker californiano è un ritorno alla forma per un artista che sembrava essersi un po’ perso. Dopo degli anni ’10 di crescente visibilità, culminati nell’ottimo “Freedom’s Goblin” (2018), Ty Segall si era dimostrato più attento al lato sperimentale della sua estetica, con risultati altalenanti nei CD successivi. Se già “Hello, Hi” (2022) aveva dato segnali positivi, questo “Three Bells”, seppur troppo lungo, ritorna sulla giusta strada.

Psichedelia, garage rock, prog e folk si mescolano in parti diseguali, ma tutte funzionali al disegno di Ty. Le due tracce iniziali, The Bell e Void, sono due odissee folk di ottima fattura, che anticipano un CD a tratti ostico, prolisso ma mai banale ed eternamente creativo. La chitarra la fa da padrone, sia in versione acustica che elettrica, a metà tra John Lennon e Led Zeppelin, a differenza di quanto avveniva in “First Taste” (2019). SI ascoltino a tal riguardo My Best Friend e Reflections.

Liricamente, siamo di fronte alla versione più romantica mai vista del Nostro: merito senza dubbio di sua moglie Denée, a cui è dedicata la struggente omonima traccia. Tra i versi più emblematici menzioniamo questo, simbolo della timidezza di Ty: “Out there, I’m too dizzy. I’d rather be inside my room” (My Room). Il verso più dolce e sincero è invece: “When we are sideways, I disconnect the phone. It’s different in the morning, when we’re alone”, da Move.

Oltre a The Bell e a Void, menzioniamo anche My Room e To You tra le migliori tracce del lotto. Inferiori restano invece Repetition e Watcher. In generale, tuttavia, i 65 minuti di “Three Bells” restano sempre coinvolgenti e fanno del disco un prodotto imperdibile per gli amanti di Ty Segall.

Voto finale: 8.

21 Savage, “american dream”

american dream

Arrivato praticamente senza campagna promozionale, “american dream” conferma lo status di star di 21 Savage, uno dei migliori autori trap sulla piazza. Etichettato in passato come rapper monodimensionale, capace solo di descrivere crudamente le storie di violenza che ha vissuto, 21 Savage è ormai autore a tutto tondo, grazie anche a collaboratori di tutto rispetto (Metro Boomin alla produzione, Travis Scott e Young Thug a supporto nel cantare).

“american dream” si apre con la title track, in cui la madre del Nostro, Heather Carmillia Joseph, descrive tutti i sacrifici che ha fatto per farlo arrivare dov’è adesso. 21 dimostra così di riconoscere gli sforzi fatti da chi gli vuole bene, come già anticipato anni fa in letter 2 my momma, contenuta in “i am > i was” (2018). Partendo da queste premesse, la prima parte del CD è stellare: sia all of me che redrum sono tra le migliori canzoni a firma 21 Savage. Da menzionare anche sneaky.

La lunghezza del lavoro (15 brani per 50 minuti) gioca contro il replay value, soprattutto a causa di elementi di minor valore (pop ur shit, see me). La trap tipica del Nostro si mescola poi con R&B (prove it) e soul (letter 2 my brudda), con risultati alterni: interessante che 21 Savage voglia sperimentare, ma speriamo che in futuro i risultati siano migliori.

In conclusione, “american dream” continua il momento positivo per 21, che viene dall’album collaborativo del 2022 con Drake “Her Loss” e dal conseguente tour. Non parliamo di un capolavoro, ma musicalmente il Nostro si afferma come uno dei più affidabili trapper su piazza.

Voto finale: 7,5.

Courting, “New Last Name”

new last name

Il secondo album della band inglese prende le distanze dal loro esordio “Guitar Music” (2022), facendo ampio uso di autotune ed elettronica. Se è vero che anche nel precedente lavoro avevamo influenze dance-punk, in “New Last Name” a volte sembra che i Courting cerchino maggiormente l’effetto wow della canzone riuscita.

Questo alla lunga non aiuta il CD ad emergere dall’eccessiva ricercatezza: i Courting si sono dimostrati efficaci nel produrre brani di base punk o indie rock, con alcuni agganci al dance-punk caro ai Franz Ferdinand. Solo a tratti vediamo questo stile replicato in “New Last Name”: Throw ed Emily G ne sono i migliori esempi. Invece We Look Good Together (Big Words) e The Wedding sono episodi decisamente rivedibili, che abbassano la media del CD. The Hills pare invece un rimando ai The 1975, col suo sax in bella vista.

In conclusione, “New Last Name” contiene elementi interessanti, ma nel complesso non riesce a soddisfare appieno le aspettative suscitate da “Guitar Music”. Non parliamo di un cattivo CD, ma allo stesso tempo ci saremmo aspettati qualcosa di più dai Courting. Il terzo LP rappresenterà probabilmente la prova del nove per il complesso inglese.

Voto finale: 7.

Green Day, “Saviors”

saviors

I veterani della scena pop punk sono tornati, quattro anni dopo lo sfortunato “Father Of All…” (2020), salutato all’epoca dalle peggiori recensioni di sempre da parte di pubblico e critica. “Saviors” è stato introdotto dalla band fin troppo ambiziosamente: si tratterebbe del terzo capitolo di una trilogia cominciata con “Dookie” (1994) e proseguita con “American Idiot” (2004), i due migliori dischi dei Green Day. Insomma, le aspettative erano fin troppo alte.

“Saviors” le mantiene solo in parte: è vero, si tratta di un ritorno al rock vero e proprio da parte del trio, che nel precedente CD aveva flirtato con sintetizzatori à la Imagine Dragons, con risultati alterni. Ci sono episodi di buon livello in “Saviors”: Dilemma è un buonissimo pezzo, così come la più raccolta Bobby Sox e la struggente Father To A Son. Abbiamo però anche l’assurdo ritornello di One Eyed Bastard, peggiore brano del lotto, che inizia come So What di Pink e si chiude con questo refrain: “Bada bing bada bing bada boom”. Nel mezzo abbiamo pressoché tutta la seconda parte del lavoro, da Goodnight Adeline a Living In The ‘20s, passando per Suzie Chapstick e Strange Days Are Here To Stay.

Testualmente è, in effetti, dove il lavoro manca di più: abbiamo infatti alcune liriche più riuscite (“People on the street, unemployed and obsolete”, presa da The American Dream Is Killing Me), ma altre prevedibili (“Don’t want no huddled masses, TikTok and taxes”, dalla stessa canzone), altre incomprensibili (“She is a cold war in my head, and I am East Berlin”, da 1981).

In conclusione, “Saviors” non rappresenta assolutamente il meglio che i Green Day sanno fare: dispiace, perché nei momenti migliori Billie Joe Armstrong e compagni sanno ancora regalare brani efficaci. La prossima volta vogliamo sentire un Mike Dirnt più presente e liriche più pungenti: allora potremo parlare di un buon disco a firma Green Day. “Saviors,” ahinoi, è solo sufficiente.

Voto finale: 6,5.

Rising: SPRINTS

Sprints

Gli SPRINTS.

Il primo articolo del 2024 di A-Rock è dedicato ai giovani SPRINTS, un gruppo irlandese che suona un punk viscerale. Ma andiamo con ordine.

SPRINTS, “Letter To Self”

letter to self

Salutato da alcuni critici Oltremanica come un capolavoro, “Letter To Self” è un’ottima introduzione all’estetica dura e senza troppi compromessi degli SPRINTS. Non stiamo parlando di un CD destinato a rivoluzionare la scena rock, ma i 40 minuti passati in compagnia di “Letter To Self” non sono assolutamente sprecati.

La vocalist Karla Chubb è carismatica al punto giusto e affronta temi non semplici in molte canzoni, ben supportata da una base ritmica convincente. Nota di merito per il chitarrista (e seconda voce della band) Colm O’Reilly, capace di riff davvero potenti, si ascoltino Cathedral ed Heavy.

Liricamente, dicevamo, Chubb narra con toni sempre diretti e potenti alcune storie delicate, ad esempio Up And Comer affronta il tema degli abusi sulle donne: “If you beat her like a drum, if you beat her like a heart, I bet she’ll fire for you still, I swear to God she’ll make a start”. Invece A Wreck (A Mess) è una sorta di inno alla rabbia: “Can you hear that sound? Can you hear that silence? Can you hear it surround?… It invites violence on me!”.

In generale, “Letter To Self” rappresenta un buon inizio di 2024: punk duro, a tratti irresistibile (A Literary Mind), ma con inevitabili passi falsi (Can’t Get Enough Of It). Karla Chubb e compagni hanno davanti a sé un futuro promettente; ad A-Rock siamo già impazienti di sentire la prossima incarnazione degli SPRINTS.

Voto finale: 7,5.

Gli album più attesi del 2024

Abbiamo archiviato da pochi giorni le liste dei migliori e peggiori album del 2023… ma è già ora di pensare al 2024! Come di consueto, divideremo i CD per genere, non prima però di avere presentato i due lavori più attesi dell’anno che verrà.

Ad A-Rock attendiamo con trepidazione i nuovi CD di Dua Lipa e Vampire Weekend, esponenti di punta rispettivamente del pop e dell’indie rock. La prima ha già rilasciato Houdini e si prepara a conquistare le classifiche mondiali con l’erede di “Future Nostalgia” (2020). I VW, dal canto loro, hanno dichiarato che l’erede di “Father Of The Bride” (2019) è ormai pronto.

Focalizzandoci ora sul rock, i Green Day hanno già annunciato che “Saviors”, il loro nuovo CD, uscirà il 19 gennaio. I singoli di lancio sono promettenti, speriamo di avere un CD all’altezza di “American Idiot” (2004). La settimana successiva dovrebbe essere pubblicato “Wall Of Eyes”, nuovo LP dei The Smile, la band di Thom Yorke e Jonny Greenwood “alternativa” ai Radiohead. Rumours dicono che anche The Strokes e Nick Cave & The Bad Seeds potrebbero pubblicare nuovi CD nel 2024. La scena britannica sarà probabilmente elettrizzata dai ritorni di Yard Act e IDLES. U2 e Coldplay, dal canto loro, dovranno riscattare le loro recenti prove, molto opache. Infine, menzioniamo anche Cloud Nothings e Ty Segall, nomi non di primo piano ma sempre da tenere d’occhio. Infine, una curiosità: quanti CD pubblicheranno nel corso del 2024 i King Gizzard & The Lizard Wizard? Le scommesse sono aperte.

Il pop, oltre a Dua Lipa, si prepara ai nuovi lavori di Billie Eilish e Ariana Grande; soprattutto la seconda è attesa al varco, mancando dalle scene da “Positions” (2020). SZA, dal canto suo, ha già annunciato l’uscita di “Lana”, erede del fortunato “SOS” (2022). Appena al di sotto in termini di popolarità, Charli XCX sembra pronta a tornare, così come Lorde. Pare poi che anche Selena Gomez e, sul versante più avanguardistico, Julia Holter siano pronte a pubblicare i loro nuovi dischi. Infine, Taylor Swift probabilmente continuerà la sua serie di ristampe anche nel 2024.

L’hip hop pare vivere un momento di flessione, in termini di qualità e impatto commerciale. Se il 2023 ha visto le nuove uscite di Travis Scott e Drake come momenti fondamentali, il 2024 probabilmente assisterà al ritorno del reietto Kanye West alias Ye: le anticipazioni di “Vultures”, in collaborazione con Ty Dolla $ign, non fanno certo sperare per il meglio, confidiamo di essere smentiti. Altri artisti attesi sono i Run The Jewels, tra i più consistenti della scena rap, così come JPEGMAFIA e Playboi Carti. Dal canto loro, anche A$AP RockyLil Nas X, artisti dal profilo pubblico molto esibito, dovrebbero dare alle stampe i loro nuovi LP. Menzione, infine, per Tierra Whack e Saba, giovani rapper attesi alla prova del nove.

Chiudiamo con l’elettronica, come sempre un panorama ibrido, spesso a cavallo con altri generi, come rock e pop. Ne abbiamo due esempi: sia FKA Twigs che LCD Soundsystem, pur essendo ben immersi nell’elettronica, hanno in passato flirtato con altri generi, la prima con R&B e pop e i secondi con punk e rock rispettivamente. Entrambi sembrano pronti a tornare nel 2024: l’attesa è davvero alta, considerando la qualità media delle due discografie. Inoltre, gli MGMT hanno annunciato l’uscita di “Loss Of Life” per il 23 febbraio. Che sia poi la volta buona per “Book 1”, il tanto annunciato nuovo LP di Grimes? Menzioniamo infine i francesi Justice e DJ Koze.

Riserviamo uno spazio, come di consueto, a quei dischi che sono eternamente annunciati dagli artisti e/o anelati dai fan, ma che mai si palesano in vendita e sui servizi di streaming. Solo tre nomi, tanto per capirci: Sky Ferreira, Frank Ocean, My Bloody Valentine. Se anche avessimo solo uno di questi tre CD, ad A-Rock saremmo al settimo cielo. Menzioniamo anche Justin Timberlake, desaparecido da un po’ di tempo, e Cardi B, assente dall’esordio “Invasion Of Privacy” del 2018. Come scordarsi, infine, di Rihanna, che promette un album reggae e dancehall almeno dal 2020?

Insomma, il 2024 promette davvero scintille. Vedremo se il fatto di essere anno bisestile porterà sorprese piacevoli o meno, musicalmente parlando. Noi di A-Rock promettiamo di recensire tutti i CD più rilevanti dell’anno. Stay tuned!

I 50 migliori CD del 2023 (25-1)

La prima parte della lista dei 50 migliori album del 2023 conteneva nomi rilevanti, tra i quali Blur e James Blake. Chi avrà vinto il premio di CD più bello del 2023 secondo A-Rock? Buona lettura!

25) Foo Fighters, “But Here We Are”

(ROCK)

L’undicesimo album dei Foo Fighters, ormai un’istituzione della scena rock, nasce da due tragedie: la morte del batterista della band Taylor Hawkins e della madre di Dave Grohl, il cantante e leader del gruppo. “But Here We Are” va pertanto letto non solo come un buon album rock, ma come un testamento all’importanza capitale che queste due persone hanno avuto nella vita dell’ex batterista dei Nirvana.

Le dieci tracce del CD non contengono particolari novità dal punto di vista estetico: i Foo Fighters si confermano artigiani del rock alternativo, stile anni ’90, con brevi accenni di shoegaze (Hearing Voices). Abbiamo però due canzoni che si staccano decisamente dal resto della tracklist: le conclusive The Teacher e Rest. Siamo di fronte a due manifesti di cosa il rock può dare al suo meglio: canzoni potenti, complesse, con liriche devastanti e sincere, che sono tra le migliori mai composte da Grohl e compagni.

Prima di addentrarci nelle due canzoni regine del CD, facciamo una breve carrellata dei versi più significativi delle altre: “I gave you my heart, but here we are” è un’ammissione di fragilità da parte di Grohl. “Pictures of us sharing songs and cigarettes, this is how I’ll always picture you” ricorda Hawkins nel modo più dolce possible (Under You).

The Teacher, la lunghissima suite (oltre dieci minuti!) che racchiude tutto il significato di “But Here We Are”, contiene alcune liriche davvero genuine: “You showed me how to be, never showed me how to say goodbye”, ma il più bello è il seguente: “Hurry now, boy, time won’t wait… The here and the now will separate, there are some things you cannot choose”. Rest ricorda la madre di Grohl, Virginia, con pochi, semplici versi, che però arrivano dritti al cuore dell’ascoltatore: “Rest, you can rest now… Rest, you will be safe now”, per poi finire il brano con un’immagine onirica: “Wakin’ up, had another dream of us, in the warm Virginia sun, there I will meet you”.

Accanto a queste due meraviglie, non possiamo tralasciare Rescued, che introduce in maniera magistrale il tono del CD. Inferiori alla media invece sono The Glass e Beyond Me. In generale, tuttavia, i Foo Fighters non suonavano così ispirati da “Wasting Light” (2011): sarà molto difficile portare in tour canzoni così toccanti per la band, ma “But Here We Are” è senza dubbio un buon album rock, che resterà scolpito per tanto tempo nella memoria dei fan dei Foo Fighters.

24) Kelela, “Raven”

(R&B – ELETTRONICA)

Il secondo album di Kelela arriva ben sei anni dopo “Take Me Apart” (2017), che aveva occupato una nicchia molto particolare: un disco ibrido, R&B tanto quanto elettronico, conturbante ma anche opprimente in certi passaggi. “Raven” prosegue in questo solco, aggiungendo ulteriore profondità e varietà ad uno stile già perfettamente riconoscibile.

La lunga assenza di Kelela dalla scena musicale si può spiegare in vari modi: la pandemia, i movimenti Black Lives Matter e la sua ricerca di privacy hanno avuto un peso, ma sicuramente una sorta di blocco dello scrittore ha influito sulla sua difficoltà a dare un degno seguito a “Take Me Apart”. I risultati, però, meritano più di un ascolto.

“Raven” suona a tratti come “Renaissance” di Beyoncé, ma molto meno pop e più club: prova ne siano Happy Ending e Missed Call, che flirtano con la musica breakbeat. Invece Washed Away e Holier sono quasi ambient. Interessante poi la scelta di iniziare e concludere il CD con i due pezzi gemelli Washed Away e Far Away.

I pezzi migliori sono Happy Ending e Contact, mentre restano sotto la media Closure e Divorce. Menzione poi per la doppietta di centro album RavenBruises, di chiaro stampo elettronico.

In conclusione, “Raven” riporta Kelela sotto i riflettori e conferma tutto il suo talento. Speriamo solo che il successore di questo LP non si faccia attendere altri sei anni.

23) MIKE, “Burning Desire”

(HIP HOP)

Il nuovo album solista del prolifico rapper newyorkese si affianca a quello pubblicato a fine 2022 (“Beware Of The Monkey”) e alla collaborazione con Wiki e The Alchemist: il 2023 è stato davvero pieno di impegni per l’artista americano. “Burning Desire”, tuttavia, si differenzia per un motivo: è il più torrenziale CD a firma MIKE (24 tracce per 50 minuti) e il più articolato. Forse il Nostro ha finalmente trovato la sua dimensione.

MIKE è un nome sempre discusso e menzionato quando si parla dei rapper più talentuosi Oltreoceano, in particolare nell’ambito più sperimentale ed astratto. “Burning Desire” è una sorta di summa di ciò che ha reso MIKE tanto apprezzato da pubblico e critica: basi pungenti, spesso con influssi jazz; ospiti di spessore (Earl Sweatshirt e Liv.e tra gli altri); testi introspettivi, spesso intrisi di malinconia e rabbia.

Il CD inevitabilmente contiene episodi minori: ad esempio, Intro With Klein e Dambe sono un inizio di tracklist non eccezionale, così come il brevissimo intermezzo Playtime (Interlude) è puro filler. Allo stesso tempo, tracce come African Sex Freak Fantasy e should be! sono notevoli. Menzione, infine, per la suadente title track e per Let’s Have A Ball, che chiude benissimo il lavoro.

In conclusione, “Burning Desire” è il più completo lavoro ad oggi a firma MIKE. L’ancora giovane rapper americano si conferma voce importante della scena hip hop e la sua eredità comincia ad essere davvero ingombrante. Che il suo talento debba ancora mostrarsi completamente? Impossibile dirlo, ma “Burning Desire” pone l’asticella ad un livello difficile da superare.

22) Danny Brown, “Quaranta”

(HIP HOP)

Il settimo album di Danny Brown (contando anche la recente collaborazione con JPEGMAFIA), a sentire il rapper originario di Detroit, è un seguito spirituale di “XXX” (2011): come quest’ultimo parlava della sua vita a 30 anni, questo CD, come il titolo preannuncia, ci narra tutte le problematiche associate ai 40 anni di Brown. “Quaranta” assomiglia peraltro anche alla parola “quarantena” e non è un caso: siamo infatti di fronte probabilmente all’ultimo LP pandemico, essendo stato composto nel 2020 e poi messo da parte fino a novembre 2023.

Non è un caso che i toni siano insolitamente amari e sommessi: i lavori di Danny Brown sono sempre stati noti per avere beat vivaci, la sua voce nasale in primo piano e atmosfere tanto paranoidi quanto fiammeggianti. La title track in questo senso è una chiara anticipatrice di un CD non facile, ma che anche dopo ripetuti ascolti continua a schiudere segreti.

Anche liricamente abbiamo dei versi davvero pessimisti: “Now it’s all over, can’t stay sober… Deep in my depression, hoping I can get over” (Down Wit It) e “Lost everything in pursuit of my dream, pushed everyone away, now no one here but me” (Quaranta) ne sono chiari esempi. Jenn’s Terrific Vacation parla invece della sempre più imperante gentrificazione, mentre il singolo Tantor campiona addirittura Michael Scott, protagonista di The Office.

I brani migliori sono Tantor e Jenn’s Terrific Vacation, buona anche Ain’t My Concern. Inferiori alla media invece Celibate, malgrado la presenza di MIKE, e Shakedown, che però hanno il merito di mantenere coerente l’atmosfera del disco. Da elogiare infine la durata del CD: a 34 minuti non c’è alcuno spazio per brani destinati esclusivamente ad aumentare i numeri dei servizi di streaming.

In conclusione, alcuni fan di Danny Brown potrebbero rimanere sconcertati, inizialmente, da “Quaranta”: aspettarsi un nuovo “Old” (2013), in questo caso, sarebbe pura illusione. Siamo anzi di fronte ad un LP cupo e malinconico, che però regala sorprese ad ogni ascolto: di quanti possiamo dire lo stesso?

21) Jamila Woods, “Water Made Us”

(R&B)

Nel terzo album della cantautrice americana, Jamila Woods si conferma voce molto importante della scena R&B e soul d’Oltreoceano. Con una maggiore apertura sui propri sentimenti e verso generi finora alieni, come il synthpop, Jamila ha composto con “Water Made Us” un lavoro pregevole, anche se un po’ confusionario nella sua struttura.

Il CD si articola infatti in ben 17 canzoni, per soli 45 minuti di durata: abbiamo infatti quattro intermezzi di durata inferiore al minuto e una composizione di appena 117 secondi. Insomma, episodi evitabili in un CD per il resto invece molto riuscito.

Infatti, pezzi come Boomerang, perla synthpop degna di The Weeknd, e Tiny Garden, pregevole duetto con la giovane duendita, resteranno come highlight della sua produzione. Menzioniamo anche Practice, con la collaborazione di Saba, e l’introduttiva Bugs. Inferiori alla media, invece, oltre ai già citati intermezzi, anche Wolfsheep, un po’ prevedibile.

Dicevamo che Jamila questa volta dedica buona parte della tracklist di “Water Made Us” al tema amoroso: nulla di rivoluzionario; tuttavia, mai lei in passato era stata così aperta su questi argomenti. Esempio ne sia I Miss All My Exes, in cui elenca i motivi per cui, appunto, sente la mancanza dei suoi ex. Send A Dove contiene versi allo stesso tempo ironici e sconsolati: “Don’t save your worst for me, I’m not your leather Everlast… Lie to me still”.

In conclusione, per una volta Jamila Woods si è solamente dedicata alla ricerca estetica e meno a creare un LP con una narrazione sottostante di spessore, come era il caso del precedente “LEGACY! LEGACY!” (2019). I risultati sono forse leggermente inferiori, ma restano buoni e sarebbero di rilievo per la stragrande maggioranza degli artisti comparabili a Woods.

20) Armand Hammer, “We Buy Diabetic Test Strips”

(HIP HOP – SPERIMENTALE)

Il nuovo lavoro del duo formato da billy woods e E L U C I D è il loro lavoro più riuscito: confusionario, creativo, impressionante nei suoi passaggi migliori. Il rap più sperimentale sta vivendo pagine importanti negli ultimi anni (basti pensare, oltre ad Armand Hammer, a Earl Sweatshirt e MIKE); “We Buy Diabetic Test Strips” è il lavoro più riuscito a firma Armand Hammer e si inserisce perfettamente in questo trend, grazie anche ad ospiti di lusso come JPEGMAFIA e Pink Siifu.

I 53 minuti di durata del CD non sono per tutti i palati, ma gli amanti dell’hip hop troveranno alcune delle produzioni più avanguardiste ed ambiziose del 2023: Woke Up And Asked Siri How I’m Gonna Die, con la preziosa collaborazione di JPEGMAFIA, è l’highlight della prima parte del lavoro. Non tralasciamo però When It Doesn’t Start With A Kiss e The Gods Must Be Crazy (con El-P dei Run The Jewels a guidare le danze). Menzione, infine, per The Key Is Under The Mat, che chiude magistralmente il lavoro.

Le uniche pecche sono The Flexible Unreliability Of Time & Memory e Y’All Can’t Stand Right Here, ma il livello del lavoro resta altissimo. billy woods corona così un 2023 da sogno, che lo ha visto anche pubblicare il fortunato “Maps” assieme a Kenny Segal pochi mesi fa.

In generale, “We Buy Diabetic Test Strips” si pone come nuovo benchmark per il rap sperimentale e astratto: la ferocia di billy woods ed E L U C I D rimane l’arma segreta del progetto, ma anche gli ospiti aggiungono spessore ad un LP davvero notevole.

19) boygenius, “The Record”

(ROCK)

Il supergruppo tutto al femminile formato dalle star dell’indie Phoebe Bridgers, Lucy Dacus e Julien Baker ha finalmente pubblicato il suo LP d’esordio, dopo l’omonimo EP di grande successo del 2018. Uscito proprio l’ultimo giorno di marzo, “The Record” non è l’instant classic che alcune riviste d’Oltreoceano vogliono farci credere, ma senza dubbio è un CD riuscito e, nelle parti migliori, irresistibile.

Le tre artiste sono molto amiche anche nella vita fuori dal palcoscenico e questa vicinanza traspare nel corso del lavoro: gli spazi sono equamente distribuiti, così che Phoebe, Lucy e Julien possono ciascuna brillare. Alcuni brani godono di questo spirito collaborativo: $20 e Satanist sono highlight innegabili. Buone anche True Blue e Not Strong Enough. Invece sotto la media l’iniziale Without You Without Them e Revolution 0, entrambe senza mordente.

Liricamente, le tre boygenius si confermano maestre nello spiegare a cuore aperto i problemi che la generazione dei millennials si trova ad affrontare in questi anni di crescita e raggiungimento dell’età adulta: “I’m 27 and I don’t know who I am” canta sconsolata Bridgers in Emily I’m Sorry. Altro verso significativo è contenuto in Without You Without Them: “I’ll give everything I’ve got… Please take what I can give”. Infine, in Satanist troviamo addirittura un proclama rivoluzionario: “Will you be an anarchist with me? Sleep in cars and kill the bourgeoisie”.

In conclusione, “The Record” è un buon lavoro indie rock, in cui le estetiche di Phoebe Bridgers, Lucy Dacus e Julien Baker trovano reciprocamente un perfetto complemento. Siamo di fronte a tre artiste che faranno parlare di loro ancora a lungo e il marchio boygenius è più vivo che mai: cosa chiedere di più ad un disco rock nel 2023?

18) The Murder Capital, “Gigi’s Recovery”

(PUNK – ROCK)

Il secondo album della band post-punk irlandese continua a costruire su quanto di buono era contenuto in “When I Have Fears” (2019), provando allo stesso tempo ad ampliare il range sonoro dei The Murder Capital. I risultati sono ancora una volta buonissimi e ci fanno sperare di aver trovato un altro grande gruppo della nidiata magica d’Oltremanica, che ha portato alla luce talenti come IDLES, shame e Fontaines D.C., giusto per citarne alcuni esponenti.

Non tutto è punk o comunque assimilabile a questo genere in “Gigi’s Recovery”: The Murder Capital, infatti, diventa sinonimo di art rock (A Thousand Lives) e addirittura influenze elettroniche (The Stars Will Leave Their Stage). Va aggiunto, a onor del vero, che molte delle canzoni più riuscite sono di matrice punk, Crying e Return My Head su tutte.

Liricamente, il CD si impone come uno dei più profondi del 2023: James McGovern e compagni intraprendono in “Gigi’s Recovery” un viaggio alla scoperta di loro stessi, tra ammissioni di impotenza (“Strange feeling I’m dealing with, I can’t admit it – I’m losing grip”, in Existence) e domande esistenziali (“Is this our way to escape? Our way through the gates we built? Is this our end?”, da Crying). In Exist, infine, McGovern trova pace: “I’ll stay committed, I’ll make it stick. This morning I took ownership – to stay forever in my own skin”.

In conclusione, “Gigi’s Recovery” è un LP non facile, ma che regala piacevoli sorprese ad ogni ascolto. The Murder Capital è, indubbiamente, un nome sempre più importante nel panorama punk-rock europeo.

17) Depeche Mode, “Memento Mori”

(ROCK – ELETTRONICA)

Il quindicesimo (!) album dei Depeche Mode ha rischiato di non vedere mai la luce: durante le registrazioni del lavoro uno dei tre componenti del gruppo, Andy Fletcher, è morto improvvisamente nella sua casa di Londra, lasciando Dave Gahan e Martin Gore da soli. Sarebbero stati in grado di produrre un CD tale da tenere alta la bandiera dei Depeche Mode?

La risposta è un sonoro sì. “Memento Mori” è uno dei migliori album di questo millennio per il gruppo britannico: brani oscuri come My Cosmos Is Mine si mescolano benissimo con hit dal sapore anni ’80 (Ghosts Again, Wagging Tongue) e ballate più simili ai Depeche Mode recenti (Soul With Me). Se anche questo fosse l’ultimo lavoro a firma Gahan & Gore, non potremmo dirci insoddisfatti.

Wagging Tongue, la seconda collaborazione diretta di sempre tra i due Depeche Mode superstiti, mette Gore e Gahan in bella mostra: il primo con una produzione sontuosa, il secondo con la sua sempre ricca voce in primo piano, in ottima forma. Altro highlight è il singolo Ghosts Again, che ricorda alcune tra le hit migliori del gruppo (People Are People e Never Let Me Down Again). Delude solo Caroline’s Monkey, troppo prevedibile.

Chi si aspettasse riferimenti testuali alla morte dell’amico Andy Fletcher resterà deluso; tuttavia, contiamo una canzone dedicata ad un altro grande artista recentemente scomparso, Mark Lanegan (Wagging Tongue). Altrove troviamo dimostrazioni di fragilità travestiti da proclami da macho (“Don’t stare at my soul, I swear it is fine”, My Cosmos Is Mine).

“Memento Mori”, date le circostanze in cui è stato concepito, è un titolo profetico. Inoltre, siamo di fronte all’album più elettronico e dark dei Depeche Mode dai tempi di “Playing The Angel” (2005): è un caso che sia anche il più riuscito degli ultimi 20 anni? Chapeau in ogni caso a Martin Gore e Dave Gahan, capaci di tenere alto il nome del gruppo synthpop, forse, più importante di sempre.

16) Squid, “O Monolith”

(ROCK)

Il secondo disco della band britannica era molto atteso da pubblico e critica. Dopo il brillante esordio “Bright Green Field” del 2021, che era entrato nella top 10 dei migliori dischi dell’anno secondo A-Rock, era lecito attendersi qualcosa di altrettanto intrigante. Beh, missione compiuta: gli Squid si candidano ad essere uno dei volti del rock d’Oltremanica.

Le otto canzoni di “O Monolith” non hanno la stessa unità tematica di “Bright Green Field”: se quest’ultimo era pervaso da sentimenti anticapitalistici, “O Monolith” rallenta i ritmi e la verve polemica, pur rimanendo fedele al suono degli Squid. Tra i migliori momenti abbiamo Undergrowth e The Blades, mentre inferiore alla media è solo After The Flash.

Non si pensi tuttavia che gli Squid abbiano perso la loro ironia, oppure che abbiano del tutto cambiato opinione riguardo la società contemporanea: Undergrowth, scritta durante uno dei lockdown pandemici, parla di reincarnazione e in particolare, del reincarnarsi in un cassettone per conservare gli abiti! Invece Siphon Song critica il flusso costante di news, più o meno irrilevanti, a cui siamo sottoposti. Infine, If You Had Seen the Bull’s Swimming Attempts You Would Have Stayed Away (titolo che è tutto un programma) parla della relazione dei ratti con gli esseri umani.

In generale, però, va premiato lo spirito di Ollie Judge e compagni: il quintetto non si è fermato, ha continuato ad esplorare nuove sonorità, portando “O Monolith” a risultati magari incoerenti, ma mai prevedibili. I 42 minuti del CD scorrono bene e rendono gli Squid una delle band di riferimento della scena rock britannica.

15) Little Simz, “NO THANK YOU”

(HIP HOP)

Annunciato e pubblicato nell’arco di una settimana, “NO THANK YOU” può sembrare semplicemente un CD che chiude un periodo trionfale per Little Simz. “Sometimes I Might Be Introvert” (2021) l’ha resa una superstar e le ha fatto guadagnare il rispetto della critica, tanto che anche noi di A-Rock abbiamo eletto il CD come migliore di quell’anno. “NO THANK YOU”, tuttavia, non va sottovalutato.

Musicalmente, questo disco è un diretto discendente di “Sometimes I Might Be Introvert”, soprattutto in canzoni come Silhouette e X; allo stesso tempo, una traccia come Gorilla fa intravedere lati diversi di Little Simz, più sbarazzini. Insomma, abbiamo di fronte un CD variegato, ma breve al punto giusto (50 minuti) da non essere eccessivamente sovraccarico. Merito anche della produzione di Inflo, già leader dei SAULT, che dà al lavoro un tocco neo-soul non banale.

Liricamente, se in precedenza l’avevamo sentita trattare temi complessi come il rapporto col padre e con l’eredità degli artisti di colore, “NO THANK YOU” denuncia i mali dell’industria discografica: “You don’t even recognize who it is that you’re becoming, they don’t give a shit” (Heart On Fire) e “They don’t care if your mental is on the brink of something dark” (Angel) ne sono chiari esempi.

Le migliori canzoni di “NO THANK YOU” sono la magnifica Silhouette, che ha un azzeccatissimo cambio di base a metà pezzo; l’iniziale Angel, che apre egregiamente il lavoro; e Heart On Fire. Invece, inferiore alla media è solo la troppo breve Sideways.

In conclusione, “NO THANK YOU” si inserisce senza problemi in un’eredità artistica sempre più rilevante: Little Simz è ormai il simbolo del rap UK al femminile e una delle artiste più rilevanti di quest’epoca.

14) yeule, “softscars”

(ROCK – POP – ELETTRONICA)

Il terzo CD di yeule conferma tutto il talento dell’artista singaporiana, ma evidenzia anche una flessibilità musicale che non conoscevamo. Rispetto al glitch pop e all’ambient dei suoi lavori precedenti, infatti, in “softscars” si affaccia con prepotenza l’estetica anni ’90: shoegaze, rock alternativo e grunge sono preponderanti, riportando alla mente band come Nirvana, Pixies e Hole.

I singoli generosamente condivisi da yeule, del resto, avevano reso chiaro il nuovo sound dell’artista: dazies sembra un pezzo preso dai My Bloody Valentine e remixato alla maniera degli Smashing Pumpkins. Siamo di fronte a un highlight immediato, potenzialmente simbolo di una carriera intera. Altri brani degni di nota sono ghosts e la title track. Se c’è un difetto in “softscars”, è che la prima parte è ricca di pezzi indelebili, mentre la qualità scema un po’ verso la fine, rendendo il replay value minore del previsto. Ad esempio, fish in the pool è inferiore alla media, molto alta va detto, del resto del CD.

Liricamente, yeule affronta le tematiche già discusse in passato, per esempio in “Glitch Princess” (2022): “I wish I was special” (4ui12) è un verso sincero e rappresenta una sensazione che tutti abbiamo provato almeno una volta. software update contiene un verso tanto breve quanto incisivo: “25, traumatized, painting white on my eyes… Handcuffs and hospitals are some things I despise”. Infine, cyber meat tratteggia un quadro a metà tra horror e onirico: “Bite me, vampy, I taste just like candy”.

I lettori più attenti si ricorderanno che yeule è stata oggetto in passato di un ritratto nella rubrica Rising: ci aveva colpito la sua abilità nel creare atmosfere intriganti pur in un contesto altamente sperimentale. “softscars” replica questa magia, raggiungendo nei suoi momenti migliori un livello davvero altissimo. Ma abbiamo tuttora il dubbio che non abbiamo ancora visto il meglio di yeule.

13) Parannoul, “After The Magic”

(ROCK)

Il nuovo lavoro del progetto coreano mantiene il mistero sull’identità del suo creatore, ma amplia ulteriormente lo spettro sonoro di Parannoul. Se “To See The Next Part Of The Dream” (2021), disco d’esordio del Nostro, era in gran parte assimilabile allo shoegaze, “After The Magic” introduce elementi di dream pop (We Shine At Night), emo (Parade) ed elettronica (Sketchbook), rendendolo un CD ancora più interessante del precedente.

Parannoul si descrive come “sotto la media in altezza, peso e prestanza fisica, un perdente”; questo malessere era palpabile nel precedente lavoro, mentre “After The Magic” ha sonorità più ottimiste, a tratti nostalgiche. I 59 minuti di durata non risultano pesanti, anzi la varietà di stili del CD li rendono leggeri; non per questo però il tutto risulta incoerente. L’estetica di Parannoul resta riconoscibile, solo pezzi come Sketchbook e Imagination non sarebbero stati bene in “To See The Next Part Of The Dream”, mentre entrano perfettamente nei canoni estetici di “After The Magic”.

I brani migliori sono Arrival e Polaris, forse sotto la media resta solo Sound Inside Me, Waves Inside You, ma non per questo il lavoro perde mordente.

Parannoul, in conclusione, ha confermato tutto il suo talento con “After The Magic”: il CD si arricchisce di elementi nuovi ad ogni ascolto, aumentando esponenzialmente il replay value. In poche parole: lavoro imperdibile per gli amanti dello shoegaze e del rock in senso più ampio.

12) Sampha, “Lahai”

(R&B – ELETTRONICA)

Era probabilmente il CD più atteso dell’intero 2023: sei anni dopo il delizioso esordio “Process” (2017), Sampha Sisay è finalmente tornato. Autore negli anni passati di collaborazioni pregiate con star del calibro di Kanye West, Drake e Kendrick Lamar, il cantautore inglese si era rapidamente affermato come uno dei più talentuosi nuovi volti della scena R&B d’Oltremanica, con basi molto elettroniche e una voce angelica a fare da sfondo a testi che denotavano grande sensibilità e fragilità.

Se “Process” era stato un piccolo terremoto nella scena musicale, vincitore anche del Mercury Prize, “Lahai” non fa che confermare quanto di buono si diceva di Sampha: la produzione resta variegata e precisa, variando tra neo-soul, R&B, pop ed elettronica. La voce di Sampha è sempre uno dei pezzi forti, tra falsetti e toni più profondi. Le canzoni, ovviamente, restano il centro di tutto: highlight come Spirit 2.0 e Suspended non possono restare indifferenti, molto bella anche Jonathan L. Seagull. Inferiori restano quindi solo i due inutili intermezzi Time Place e Wave Therapy, che insieme non raggiungono i 60 secondi di durata.

Liricamente, “Lahai” non cattura troppo l’attenzione dell’ascoltatore: diciamo che il Nostro ci porta in un viaggio attraverso la sua spiritualità. Prova ne siano i seguenti versi: “Seasons grow and seasons die… How high can a bird ever fly?” (Jonathan L. Seagull), “I am lifted by her love, I am lifted from above” (Suspended, dedicata alla figlia nata nel 2020).

In conclusione, “Lahai” è uno dei migliori LP del 2023, come speravamo ad A-Rock: Sampha ribadisce il suo sconfinato talento con un disco quieto, ma non scontato. Dovremo probabilmente aspettare fino al 2029 per il suo nuovo lavoro, ma se questa è la qualità dei suoi lavori Sampha può prendersi tutto il tempo che vuole.

11) Young Fathers, “Heavy Heavy”

(SPERIMENTALE)

Avevamo perso le speranze di avere un nuovo CD degli Young Fathers, trascorsi ormai cinque anni dal riuscito “Cocoa Sugar” (2018); sarebbe stato un vero peccato, data la bontà del progetto e l’ambizione mostrata dal gruppo scozzese, vero innovatore della scena rap d’Oltremanica.

Il precedente lavoro degli Young Fathers mescolava sapientemente infatti hip hop, soul e pop, creando una miscela difficilmente replicabile. Infatti, anche Graham “G” Hastings, Alloysious Massaquoi e Kayus Bankole hanno impiegato diverso tempo per dare un degno seguito a “Cocoa Sugar”: i risultati, da questo punto di vista, sono nuovamente buonissimi.

Il disco prosegue il lavoro iniziato con “Cocoa Sugar”, andando ancora più all’essenziale: tracce di massimo tre minuti e mezzo di durata, ritornelli pop immersi in atmosfere che richiamano elettronica, art pop e ritmi africaneggianti. Non tutto è perfetto e il CD richiede più ascolti per essere apprezzato appieno, ma una volta entrati nella atmosfere di “Heavy Heavy” è molto difficile uscirne.

I brani migliori sono l’introduttiva Rice e I Saw, mentre leggermente sotto la media è Shoot Me Down. Da non sottovalutare poi Ululation, che ricorda gli Animal Collective di “Merriweather Post Pavilion” (2009).

In generale, gli Young Fathers si confermano band imprescindibile per la scena hip hop sperimentale, ma sarebbe un errore ridurli a quel sound: quanti artisti troviamo in giro attualmente capaci di mescolare così abilmente rap, pop ed elettronica? “Heavy Heavy” potrebbe essere quello che “Currents” (2015) è stato per i Tame Impala: il CD della definitiva esplosione.

10) Yves Tumor, “Praise A Lord Who Chews But Which Does Not Consume; (Or Simply, Hot Between Worlds)”

(ROCK)

Il lunghissimo titolo del nuovo album di Yves Tumor non tragga in inganno: non siamo di fronte ad un CD pretenzioso o eccessivamente prolisso. Anzi, vale il contrario: i 37 minuti di durata ne fanno un prodotto accessibile ai più, contando che la maggior parte delle canzoni è ispirata da post-punk e rock alternativo, con tocchi di psichedelia. Ne è passata di acqua sotto i ponti da quando Yves Tumor, ormai otto anni fa, pubblicava “Serpent Music” (2015), concentrato di musica elettronica e noise.

Dal punto di vista testuale, il lavoro conferma la fama di artista misterioso di Sean Bowie (questo il vero nome di Yves Tumor): molto spesso contano più le sensazioni evocate che le parole. Abbiamo delle affermazioni di principio come “You’re still a friend of mine” (Lovely Sewer) così come considerazioni più poetiche (“Stare straight into the morning star, with lips just like red flower petals”, da Meteora Blues).

“Praise A Lord Who Chews But Which Does Not Consume; (Or Simply, Hot Between Worlds)” musicalmente riparte da dove “Heaven To A Tortured Mind” (2020) aveva lasciato: rock gotico, misterioso ma invitante. Yves Tumor, nato in Tennessee ma ormai da anni di base a Torino, ha pubblicato un altro LP di ottima qualità: lo shoegaze di Meteora Blues e la trascinante Heaven Surround Us Like Hood sono gli highlight immediati. Da non sottovalutare poi Operator e God Is A Circle. Unico brano superfluo è la strumentale Purified By The Fire.

Nulla in realtà suona fuori posto, tanto che “Praise A Lord Who Chews But Which Does Not Consume; (Or Simply, Hot Between Worlds)” potrebbe addirittura essere il migliore lavoro a firma Yves Tumor. Il rock sporco e sensuale degli ultimi suoi lavori si addice decisamente bene all’estetica del Nostro, a cui ormai manca solo una vera hit per diventare una figura rispettata non solo dalla critica e dal pubblico più ricercato, ma anche dal mainstream.

9) Model/Actriz, “Dogsbody”

(ROCK – SPERIMENTALE)

I Model/Actriz sono un quartetto originario di Brooklyn, attivi in realtà dal lontano 2016, ma “Dogsbody” è il loro primo CD; ed è una ventata di freschezza nella scena rock americana e non solo. Industrial, noise, elettronica e numerose altre influenze si mescolano, facendo della band un ibrido difficile da inquadrare: LCD Soundsystem, Talking Heads e Nine Inch Nails sono ispirazioni, ma nessuno suona esattamente come i Model/Actriz.

L’inizio del lavoro, in questo senso, è emblematico: Donkey Show è un assalto sonoro, una canzone davvero abrasiva e trascinante. Mosquito è invece quasi dance nel suo incedere, anche se poi la batteria tonante di Ruben Radlauer entra in scena con prepotenza. La suite Crossing GuardSlate è il momento migliore del CD, con la seconda che si inserisce direttamente nello spazio lasciato dalla prima, anche testualmente: Crossing Guard finisce con i versi “Oh it feels like, oh it feels like…”, per lasciare spazio a Slate, le cui prime parole sono “…Like pressure”.

Il disco contiene anche due momenti quasi delicati, Divers e Sun In, che sembrano preludere ad un futuro diverso per i Model/Actriz. Va detto che, come già accennato, i momenti migliori sono quelli più tosti musicalmente parlando: l’energia e la passione del gruppo sono davvero ammirevoli, così come da elogiare è la loro qualità di strumentisti. Dal canto suo, il cantante Cole Haden è trascinante, pur limitandosi spesso a declamare versi piuttosto che a cantarli.

In conclusione, “Dogsbody” è il miglior esordio del 2023 nel mondo rock: i Model/Actriz hanno affinato negli anni una loro estetica, particolare e non accogliente verso l’ascoltatore medio, ma non per questo disprezzabile. Al contrario: il CD è entrato con merito nella top 10 dei migliori LP del 2023 di A-Rock.

8) Slowthai, “UGLY”

(HIP HOP)

Il terzo album del rapper britannico era stato identificato da molti come il momento della verità per Tyron Frampton: dopo l’ottimo esordio “Nothing Great About Britain” (2019) e l’interlocutorio “TYRON” (2021), “UGLY” poteva rappresentare una trappola per la carriera di Slowthai. Nulla di tutto ciò: il CD è ben costruito e la potenza di alcuni brani lo porta all’ottimo livello del primo suo lavoro, forse anche a migliori risultati.

Slowthai ha da sempre flirtato con il punk e il rock, soprattutto nei suoi brani più sfrenati: Doorman ne è l’esempio più riuscito. “UGLY” recupera quella crudezza che era stata messa da parte in “TYRON”: evidente questa scelta nella doppietta iniziale formata da Yum e Selfish, due tra i migliori episodi del CD. Abbiamo successivamente anche brani più raccolti, come Never Again, che servono come momenti di pausa.

Menzioniamo poi il parco ospiti di “UGLY”, davvero di ottimo livello: Fontaines D.C., Shygirl e Taylor Skye dei Jockstrap fanno capolino ed arricchiscono ulteriormente la ricetta alla base del lavoro. I migliori pezzi sono Yum e Selfish, come già accennato; ma buona anche Never Again. Invece sotto la media Wotz Funny. I risultati, in ogni caso, restano notevoli e fanno di Slowthai una figura di riferimento nella scena rap d’Oltremanica.

Questa leadership si deve anche ad una figura pubblica senza compromessi: Slowthai è colui che ha esibito la testa amputata di un manichino raffigurante Boris Johnson durante i Mercury Prize del 2019. Testualmente, questa onestà estrema si riflette nelle liriche di “UGLY”: Yum contiene riferimenti a varie posizioni sessuali, per poi esplodere in “More coke, more weed… One drinks never enough, excuse me while I self-destruct”. Altrove emergono invece i suoi sentimenti verso ciò che c’è di più prezioso nella sua vita: “I’m thankful for the life that I lead, I kiss my son before I put him to sleep” (Selfish). L’irrequietudine però riemerge prepotente nella title track: “The moment the world stands still, you are not in control”.

“UGLY” è un album davvero riuscito, sotto tutti i punti di vista: musicalmente, Slowthai testa i limiti del rap, allargandone gli orizzonti verso punk e rock alternativo. Liricamente, siamo di fronte ad un uomo depresso ma realizzato, pessimista ma consapevole di essere privilegiato: Tyron Frampton si conferma unico, nel bene come, a volte, nel male. “UGLY” è il suo LP più riuscito ed è il miglior CD hip hop del 2023.

7) Jessie Ware, “That! Feels Good!”

(POP)

Il quinto disco della cantautrice inglese prosegue il fortunato filone incominciato nel 2020 con “What’s Your Pleasure?”, migliorando ulteriormente alcuni aspetti e creando, in conclusione, un quasi perfetto album di disco music. Nostalgico? Forse, ma è innegabile l’appeal che la bellissima voce di Jessie e la perfetta produzione hanno anche sull’ascoltatore più casuale.

L’atteggiamento da novella Donna Summer, anche nel tono vocale, dona molto all’estetica di Jessie Ware, una delle artiste che ha contribuito al revival della disco negli ultimi anni, assieme alle superstar Dua Lipa (“Future Nostalgia” del 2020) e Beyoncé (“RENAISSANCE” del 2022). “That! Feels Good” in questo senso non è un disco innovativo, ma perfeziona tutto quello che già di buono c’era in “What’s Your Pleasure?”: la produzione, affidata a James Ford e Stuart Price, è immacolata. Abbiamo anche una traccia paragonabile alla superlativa Spotlight del CD precedente: Begin Again è trascinante allo stesso modo, pressoché intoccabile.

I migliori pezzi di “That! Feels Good!” sono non a caso i singoli di lancio Free Yourself, Pearls e Begin Again. Molto buone anche la più romantica Hello Love e la title track, mentre sotto l’altissima media del CD sono solamente Beautiful People e Shake The Bottle.

Anche liricamente abbiamo versi importanti, che risuonano con molti: la title track declama il manifesto dell’intero LP, “Freedom is a sound, and pleasure is a right”. “I wake up in the morning and I ask myself, ‘What am I doing on this planet?’” (Beautiful People) è invece la descrizione di una sensazione che tutti abbiamo provato, prima o poi.

In poche parole, “That! Feels Good” è uno dei migliori CD pop del 2023. Tanti potenziali successi, grande coesione, durata ragionevole lo rendono uno dei lavori che si sono meritati la top 10 di A-Rock. Jessie Ware si conferma grande cantautrice e nella parte migliore di una carriera ormai lanciatissima.

6) shame, “Food For Worms”

(ROCK)

Il terzo CD della band punk-rock britannica è il loro lavoro più compiuto. Partendo dalla spontanea rabbia di “Songs Of Praise” (2018) e passando per il punk duro di “Drunk Tank Pink” (2021), gli shame si sono evoluti in un gruppo capace di affrontare con disinvoltura l’indie rock (Adderall) così come il rock psichedelico (Six-Pack) e le ballate (All The People).

I singoli di lancio del lavoro, del resto, avevano creato alte aspettative verso “Food For Worms”: Fingers Of Steel è un ottimo pezzo sospeso a metà tra post-punk e indie rock, Adderall una ballata irresistibile e dal testo davvero toccante, infine Six-Pack è quasi sperimentale. A questo aggiungiamo la produzione di Flood, già collaboratore in passato di U2, Nine Inch Nails e PJ Harvey.

I 43 minuti del CD in questo modo sono davvero gradevoli, non ci sono momenti davvero deboli (forse solo The Fall Of Paul è inferiore agli altri brani in scaletta). I migliori momenti sono Fingers Of Steel e Adderall, buona anche l’epica Different Person.

Accennavamo prima al fatto che anche liricamente il lavoro è davvero riuscito: in Adderall Charlie Steen e compagni raccontano la progressiva dipendenza dai farmaci di un loro amico, “I know it’s not a choice, you open up the doors, then you hear another voice” è il verso più potente. Yankees narra di una relazione tossica: “When you’re down, you bring me down… And that is love, so you say”. Non tralasciamo poi Different Person, che affronta il tema di un’amicizia finita e la sensazione di sconfitta che pervade le due parti: “You say you’re different, but you’re still the same!” suona quasi come una preghiera, destinata ad infrangersi sulla dura realtà.

“Food For Worms” è quindi davvero un LP di grande livello, ma già sapevamo del talento degli shame, tra i principali esponenti della nidiata miracolosa del post-punk/indie rock d’Oltremanica. Ognuno ha le sue preferenze su chi siano i leader (basti citare IDLES, Fontaines D.C. e black midi), ma Steen e co. sono sicuramente dei pilastri della scena rock britannica.

5) Olivia Rodrigo, “GUTS”

(POP – ROCK)

Era uno degli album più attesi fin dall’annuncio della sua pubblicazione: Olivia Rodrigo, la giovanissima stella che aveva rivoluzionato la scena pop con l’esordio “SOUR” (2021), vincendo anche tre Grammy, avrebbe alzato l’asticella, oppure si sarebbe rifugiata nei confortevoli suoni di “SOUR”?

Beh, la verità è che probabilmente siamo di fronte alla più credibile erede della prima Taylor Swift: ansie e delusioni giovanili si affastellano sopra brani pop-rock (all-american bitch), a tratti con accenni punk (bad idea right?), che poi si sciolgono in dolci ballate solo chitarra e voce (lacy). Non siamo di fronte al CD della decade, ma “GUTS” è un ottimo CD, che lancia definitivamente una carriera già promettente.

I singoli di lancio avevano fatto intravedere i due lati del lavoro: da un lato la trascinante vampire, epica ballata che poi esplode in un bellissimo brano rock; dall’altro due canzoni à la Avril Lavigne, get him back! e bad idea right?, che ci riportano ai primi anni ’00. Non scordiamo poi le influenze delle Hole e di Lorde: questo non per denigrare Olivia, ma per dire che nulla si inventa nel panorama musicale moderno. Non ci sono pezzi davvero brutti, logical è sicuramente inferiore alla media, ma viene più che compensato da vampire, all-american bitch e pretty isn’t pretty.

Liricamente, sono davvero numerosi i versi imperdibili, che siano amari o ironici. Citiamo qui i più riusciti: “Everything I do is tragic, every guy I like is gay” (ballad of a homeschooled girl), “When am I gonna stop being wise beyond my years and just start being wise?” (teenage dream), “I want sweet revenge, I want him again” (get him back!) e “Bloodsucker, fame fucker… Bleedin’ me dry like a goddamn vampire” (vampire), il più bello dell’intero CD, forse destinato nientemeno che a Taylor Swift, secondo le malelingue dei social.

In conclusione, “GUTS” mostra che Olivia Rodrigo ha un talento fuori dal comune ed è meritatamente tra le più luminose popstar viventi (anche se poi sono i brani più rock quelli davvero riusciti). Se “SOUR”, come dicevamo nel profilo Rising dedicatogli due anni fa, era un buon inizio, “GUTS” non solo ne è una logica evoluzione, ma rappresenta un progresso sotto tutti i punti di vista.

4) Sufjan Stevens, “Javelin”

(FOLK)

Sufjan Stevens viene da un periodo molto complicato della sua vita: gli è stata recentemente diagnosticata la sindrome di Guillaun-Barré, che lo sta costringendo a reimparare a camminare dopo essersi svegliato una notte improvvisamente paralizzato. Inoltre, il suo partner Evans Richardson IV è deceduto, lasciando un vuoto incolmabile nella sua vita.

Tutto questo tumulto interiore ha condotto a “Javelin”, un album che ritorna al folk che ha fatto la sua fortuna e lo ha reso un’icona del mondo indie. Siamo dalle parti di “Illinois” (2005) e “Carrie & Lowell” (2015), sia come estetica che come temi trattati. La qualità dei suoi album cantautorali è altissima, fin dai suoi esordi: per questo la scelta di pubblicare negli scorsi anni album solisti di stampo elettronico come “Convocations” (2021) e “Lamentations” (2023) aveva lasciato perplessi, pur apprezzando il tentativo di spiazzare il proprio pubblico. Capitolo a parte è “A Beginner’s Mind” (2021), in cui Sufjan aveva collaborato col suo protegé Angelo De Augustine sulla base di un canovaccio prettamente folk.

Vero è che gli album più raccolti di Sufjan spesso trattano temi tragici, come la morte dei propri cari o le pene d’amore, fattori che portano Stevens ad esporsi molto pubblicamente e quindi richiedono un trattamento particolare. Tuttavia, pezzi come So You Are Tired e Will Anybody Ever Love Me? sono di così alto livello che ci fanno sperare che questa nuova stagione sia lunga e proficua. Menzione poi per la lunghissima Shit Talk, che vanta la collaborazione di Bryce Dessner (The National). Inferiori alla media invece Javelin (To Have And To Hold) e Genuflecting Ghost.

Il CD, pur non essendo ottimista, ha una natura ambivalente: da un lato affronta temi tragici, come già accennato, però su basi spesso euforiche, capaci di ribaltare la prospettiva. Prova ne siano There’s A World, cover di Neil Young, e A Running Start. Liricamente, abbiamo alcuni versi davvero toccanti: “I will always love you… But I cannot look at you” (Will Anybody Ever Love Me?), “It’s a terrible thought to have and hold” (Javelin (To Have And To Hold)) e “So you are tired… of even my kiss” (So You Are Tired) sono i più rilevanti.

“Javelin” non è il miglior LP a firma Sufjan Stevens, ma ciò non fa che aggiungere valore ad una discografia ormai leggendaria. Il lavoro ha una qualità unica: saper prendere spunto da ogni passato CD del Nostro, per creare un qualcosa di familiare e allo stesso tempo nuovo. Siamo di fronte ad un artista unico, che sta lasciando segni indimenticabili nella musica contemporanea: complimenti, Sufjan, e buon recupero dalla sindrome di Guillaun-Barré.

3) Caroline Polachek, “Desire, I Want To Turn Into You”

(POP – ELETTRONICA)

Il secondo album solista di Caroline Polachek, un tempo metà dei Chairlift, è il suo lavoro più completo ed ambizioso. Esplorando territori tanto diversi come il flamenco (Sunset), il trip hop (Pretty In Possible) e la trance (I Believe), Caroline si afferma come autrice pop a tutto tondo: i paragoni con Björk e Kate Bush saranno forse prematuri, ma “Desire, I Want To Turn Into You” è davvero strabiliante a tratti.

Uscito il giorno di San Valentino, il CD è in effetti molto legato al tema del desiderio e dell’amore nel senso più ampio dei due termini: Polachek, infatti, ha composto un lavoro tanto sensuale quanto misterioso, con testi a volte diretti (“Salty flavor, lies like a sailor… But he loves like a painter”, da Billions) ma altre criptici (Crude Drawing Of An Angel). Ripetuti ascolti mettono poi sempre più in risalto la bellezza della voce di Caroline, capace di toccare vette altissime e sempre molto espressiva.

Il prolungato rollout del CD, i cui singoli hanno iniziato a circolare addirittura dal 2021 (a quell’anno risale Bunny Is A Rider, uno dei pezzi forti del lavoro), non ha intaccato l’hype dietro “Desire, I Want To Turn Into You”, anzi ha contribuito ad accrescere l’attesa di pubblico e critica: i risultati sono davvero eccellenti e fanno di Caroline Polachek un volto di punta del pop sofisticato. Pezzi come la già citata Bunny Is A Rider e Welcome To My Island sono notevoli; non tralasciamo poi Billions e Sunset. A dire il vero, nessuno dei dodici brani della tracklist è mediocre, forse solo Hopedrunk Everasking è inferiore alla media (altissima) del disco.

In conclusione, “Desire, I Want To Turn Into You” è il miglior LP pop del 2023 e meritevole del podio nella classifica dei migliori album del 2023 di A-Rock.

2) ANOHNI And The Johnsons, “My Back Was A Bridge For You To Cross”

(SOUL – ROCK)

13 anni dopo l’ultimo CD coi The Johnsons, ANOHNI (nuovo nome d’arte di Antony Hegarty, dopo il cambio di sesso) è tornata con la sua fidata band per produrre un album di musica soul, con intarsi di cantautorato e rock. Lontani sono i tempi di “Hopelessness” (2016), il suo esordio solista fatto di musica elettronica difficile e sperimentale: “My Back Was A Bridge For You To Cross” è un CD caldo, accogliente, tra i migliori mai composti da Antony/ANOHNI.

Oltre alla musica, spesso pregevole, abbiamo anche testi spesso molto belli ed evocativi, che trattano problemi attuali come i diritti delle persone transgender e la crisi ambientale: “No one’s getting out of here, that’s why this is so sad” (It Must Change) è la summa del pensiero di ANOHNI, notoriamente pessimista sul futuro del nostro pianeta. It’s My Fault continua su questa traiettoria: “It’s my fault, the way I broke the Earth”. Invece, in Scapegoat il tema portante è la crescente discriminazione verso le persone trans, definite dal narratore “so killable”.

Oltre a questi contenuti testuali, non facili da assimilare ma condivisibili, abbiamo canzoni di grande bellezza, da It Must Change a Can’t, passando per Rest e Why Am I Alive Now?, che rendono il lavoro imperdibile. Solo la troppo breve Go Ahead non lascia una grande impressione sull’ascoltatore, ma i risultati complessivi del CD sono davvero eccezionali.

In conclusione, “My Back Was A Bridge For You To Cross” riporta ANOHNI tra le grandi stelle del cantautorato moderno. I The Johnsons si confermano supporto imprescindibile e il disco è meritatamente al secondo posto nella lista dei migliori LP del 2023 secondo A-Rock; ma siamo sicuri che molte altre pubblicazioni prenderanno in considerazione “My Back Was A Bridge For You To Cross”.

1) Mitski, “The Land Is Inhospitable And So Are We”

(FOLK – ROCK)

Il nuovo album della cantautrice americana di origine giapponese segue di un solo anno “Laurel Hell”, che aveva segnato una svolta verso il pop da classifica imprevista, ma non per questo sbagliata. Anzi, il CD era entrato in molte discussioni anche in direzione Grammy. Tuttavia, questa attenzione mediatica aveva eccessivamente stressato Mitski, che aveva paventato un prematuro ritiro dalle scene.

Decisione fortunatamente rinviata a data da destinarsi: “The Land Is Inhospitable And So Are We” è infatti un lavoro pregevole, per quanto diverso dai precedenti. Folk e cantautorato la fanno da padrone: lontani sono i tempi del pop di “Laurel Hell” così come dell’indie rock energico di “Puberty 2” (2016). Allo stesso tempo, il CD è prova ulteriore del grande talento della Nostra, tanto che la domanda sorge spontanea: è il suo miglior lavoro? La risposta è un sì convinto.

Il CD è coerente, nessuna traccia è fuori posto e la scaletta, con i suoi 32 minuti, è compatta al punto giusto. A tutti questi pregi strutturali aggiungiamo la qualità delle canzoni: Heaven è la punta di diamante della prima metà, ma non scordiamoci The Deal, con grande progressione finale. Nella seconda metà a brillare è Star, ma nulla in realtà è fuori posto. Forse inferiore alla media solamente la troppo breve When Memories Snow, ma è un peccato veniale in un LP per il resto notevole.

Liricamente, il cuore di Mitski continua ad essere triste, ma si intravede una luce all’orizzonte. “I sip on the rest of the coffee you left… A kiss left of you… Heaven, heaven, heaven” (da Heaven) è uno dei versi più romantici ed ottimisti mai scritti dalla Nostra. Altrove invece troviamo frasi più appropriate per la Mitski a cui eravamo abituati: “Your pain is eased but you’ll never be free” (The Deal) e “I’m sorry I’m the one you love” (I’m Your Man) ne sono esempi.

In conclusione, questa estetica a metà tra Weyes Blood e Joni Mitchell, con un tocco di country e di Kate Bush, si sposa benissimo con la Mitski del 2023. “The Land Is Inhospitable And So Are We” può essere un titolo per certi versi minaccioso, ma le sue sonorità calde ed evocative lo renderanno imperdibile per gli amanti dell’indie.

Anche quest’anno A-Rock vanta un podio molto variegato, per sonorità e composizione. Settembre 2023 è stato il mese in assoluto più ricco di uscite rilevanti, con i CD di Mitski e Olivia Rodrigo usciti in quel periodo, ma non sottovalutiamo neanche febbraio e marzo.

Cosa ne pensate? La classifica vi sembra coerente o ci sono dei dischi che avreste valutato diversamente? Stay tuned, perché è già tempo di pensare al 2024, anno bisestile e come tale ricco di incognite… buon anno da A-Rock! Ci vediamo nel 2024 con gli LP più attesi dell’anno che verrà!

I 50 migliori album del 2023 (50-26)

Il 2023 è stato un anno interessante musicalmente parlando, sebbene nessuna delle maggiori stelle del firmamento pop (Beyoncé, Dua Lipa, Ariana Grande, Rihanna, The Weeknd ecc) abbia pubblicato nuovi lavori. Taylor Swift, dal canto suo, ha continuato a macinare record con le sue ristampe e un tour da tutto esaurito in giro per il mondo.

Negli altri generi, a partire da rap e rock, si sono visti tanti lavori di buona fattura, ma nessuno davvero stupefacente o rivoluzionario; in compenso, ci sono stati ritorni di grandi veterani (Blur, Depeche Mode), conferme da parte di artisti di talento (Kelela, SZA, King Krule) ed esordi promettenti (Victoria Monét, Model/Actriz).

Come ogni anno, ricapitoliamo in questo articolo la prima parte della lista dei migliori album del 2023 secondo A-Rock, analizzando le posizioni dalla 50 alla 26. Appuntamento a Natale con la seconda parte, quella più prelibata. Buona lettura!

50) Victoria Monét, “JAGUAR II”

(R&B)

Dopo aver debuttato nel 2020 con l’EP “JAGUAR” e aver collaborato con artisti del calibro di Khalid e Ariana Grande negli ultimi anni, è arrivato il momento finalmente per Victoria Monét di pubblicare il primo CD vero e proprio a suo nome.

“JAGUAR II” si pone, già nel titolo, come seguito ideale del precedente EP e conferma quanto di buono si dice sul conto di Victoria: melodie sensuali la fanno da padrone in più o meno tutte le 11 tracce che compongono “JAGUAR II”, con risultati spesso interessanti. Non stiamo parlando di un disco rivoluzionario, ma i 35 minuti di durata passano gradevolmente.

Il mix di R&B e soul, con una piccola spruzzata hip hop in Party Girls, rende “JAGUAR II” assimilabile ad artisti che già sono nell’Olimpo del pop: Bruno Mars, gli Earth, Wind & Fire, Sade… Per questo motivo, come dicevamo in apertura, questo CD non brilla forse per originalità, ma senza dubbio abbiamo una produzione eccellente e una performer eclettica come Victoria Monét. I brani migliori sono Alright, con collaborazione di Kaytranada e ruggito di un giaguaro a fine canzone, e Hollywood. Inferiori alla media invece Party Girls e I’m The One, mentre la presenza di Smoke (Reprise) è questionabile, dato che la traccia precedente è proprio Smoke e nulla aggiunge al brano principale.

Liricamente, Victoria Monét non si distingue per particolari proclami o profondità dei versi: Smoke contiene un verso che si prende gioco della passione per la marijuana del suo partner, collegandola alle mascherina contro il Covid-19: “Cough, you don’t need a mask, this that shit you smoke to”. Altrove emerge il suo lato ironico: “Stop askin’ me for money, get your own. I barely even just got on” (Stop (Askin’ Me 4Shyt)).

In conclusione, “JAGUAR II” è un buon esordio: Victoria Monét si conferma nome da tenere d’occhio e i suoi numeri sulle piattaforme di streaming ci fanno capire che siamo di fronte ad una cantante con potenziale anche mainstream. Staremo a vedere se in futuro sarà in grado di sfondare ulteriormente, come fatto in passato dai suoi idoli, omaggiati nel corso del CD sia direttamente (gli Earth, Wind & Fire appaiono in Hollywood) che indirettamente (i richiami all’estetica di Bruno Mars sono innegabili).

49) Earl Sweatshirt & The Alchemist, “VOIR DIRE”

(HIP HOP)

Non si può certo dire che il produttore The Alchemist si sia tenuto poco occupato durante il 2023: nel solo mese di ottobre A-Rock si è trovato a recensire due suoi lavori, uno con Wiki e MIKE e questo con Earl Sweatshirt. Va detto che “VOIR DIRE” era in realtà stato pubblicato originariamente in agosto, come NFT, attraverso il sito di streaming Gala Music; solo il 6 ottobre è stato condiviso sulle più comuni piattaforme.

Il CD contiene alcune delle tipiche basi a firma The Alchemist, rappate da un sempre positivo Earl Sweatshirt, con il supporto di ospiti di spessore, tra cui un convincente Vince Staples e MIKE. I 25 minuti di durata rendono chiaro che non è presente alcun filler, fatto sempre lodevole nel panorama musicale odierno. Una circostanza davvero strana è che la tracklist dell’NFT è differente da quella sulle piattaforme di streaming più comuni: All The Small Things e My Brother, The Wind sono state sostituite rispettivamente da Heat Check e Mancala.

Non siamo di fronte ad un LP rivoluzionario come “Some Rap Songs” (2018), ma “VOIR DIRE” resta comunque un buon disco hip hop, con highlight di livello, tra cui menzioniamo particolarmente Sentry e The Caliphate. Invece inferiore alla media è 100 High Street.

In conclusione, “VOIR DIRE” merita sicuramente un paio di ascolti: il CD verrà apprezzato soprattutto dagli amanti del rap sperimentale e astratto tipico di The Alchemist ed Earl Sweatshirt.

48) Paramore “This Is Why”

(ROCK)

Il sesto album dei Paramore li trova ad un bivio: sei anni dopo il riuscito “After Laughter” (2017), in cui Hayley Williams e compagni sembravano aver adottato un suono più pop, con in mezzo anche i due album solisti della Williams pubblicati nel 2020 e nel 2021, “This Is Why” è uno snodo importante per i Paramore. I risultati sono buoni, anche se alcuni pezzi suonano troppo derivativi rispetto al meglio che la band ha offerto nel corso della sua ottima carriera.

I singoli di lancio andavano dal post-punk (The News) alla new wave stile Talking Heads e Franz Ferdinand (This Is Why), per finire con un mediocre brano pop-punk (C’Est Comme Ca). Gli altri pezzi della tracklist vanno dal buono (Running Out Of Time) al monotono (Liar), con in mezzo discrete prove come Figure 8 e You First.

Liricamente, il CD contiene accuse pesanti (“No offense, but you got no integrity”, da Big Man Little Dignity) così come insulsi ritornelli (“na-na-na-na-na” in C’Est Comme Ca). Abbiamo poi obliqui riferimenti alla guerra in Ucraina in The News e frasi quasi da film horror (“Only I know where all the bodies are buried… Thought by now I’d find ’em just a little less scary”, Thick Skull).

In generale, “This Is Why” conferma tutto il talento dei Paramore, che non per caso sono la band di maggior successo e più longeva della mandata dei primi anni ’00 della scena emo americana (My Chemical Romance e Fall Out Boy tra gli altri esponenti). Non è un CD destinato a cambiare la storia della musica, ma i suoi 32 minuti di durata passano serenamente e ci fanno ritenere che ci sia ancora benzina nel serbatoio nella band capitanata da Hayley Williams.

47) Carly Rae Jepsen, “The Loveliest Time”

(POP)

Quando parliamo di Carly Rae Jepsen, siamo spesso di fronte a un paradosso: i suoi album ed EP di b-side spesso risultano tanto quanto i lavori “ufficiali”, se non migliori. Una cosa di questo tipo è accaduta a “Dedicated Side B” (2020) rispetto a “Dedicated” (2019); ora lo schema si ripropone tra “The Loveliest Time” e il precedente “The Loneliest Time” (2022).

Laddove il secondo aveva cercato di ampliare la palette sonora della Nostra, con risultati alterni, “The Loveliest Time” non ha altro scopo che non sia fare piazza pulita di quanto ricavato dalle fruttuose sessioni che avevano portato a “The Loneliest Time”. Abbiamo esperimenti di stampo french (Psychedelic Switch), elettronico (Aeroplanes, Shadow) e funk (Shy Boy). In alcuni casi, come Kollage e Psychedelic Switch, i risultati sono davvero buoni; altrove invece (So Right, Weekend Love) abbiamo ancora da lavorare.

Carly Rae Jepsen, come molti ricorderanno, è l’autrice della fortunatissima Call Me Maybe (2011), hit tutt’oggi molto ascoltata. Nel corso della carriera Carly è riuscita a staccarsi di dosso l’etichetta di “one hit wonder” e a divenire una cantautrice rispettata. “The Loneliest Time” è un’aggiunta di valore ad una discografia sempre più ricca e variegata. Per molti fan il suo capolavoro resta “E•MO•TION” (2015), ma ci resta il dubbio che il meglio per lei debba ancora venire. Vedremo se i prossimi suoi CD confermeranno questa teoria o meno.

46) Blur, “The Ballad Of Darren”

(ROCK)

Il nono album della leggendaria band britannica suona esattamente come ci aspetteremmo da un disco dei Blur nel 2023: maturo, raffinato, meno sfrenato del passato ma allo stesso tempo meno dispersivo, aiutati in questo anche dalla produzione precisa dell’infallibile James Ford (in passato collaboratore di Arctic Monkeys e Foals, tra gli altri). Non siamo di fronte al nuovo “Parklife” (1994), ma “The Ballad Of Darren” infonde nuova linfa in una carriera che sembrava arrivata al capolinea con “The Magic Whip” (2015).

Il CD si compone in effetti di ballate per la maggior parte, come il titolo preannuncia: l’iniziale The Ballad ne è un chiaro esempio. I Blur à la Song 2 riemergono solo in St. Charles Square, non a caso scelto come singolo di lancio: chitarre distorte, Damon Albarn che lancia grida a metà tra il panico e la rabbia, Graham Coxon in chiara evidenza… sembra proprio di essere tornati a “Blur” (1997)! L’effetto nostalgia viene frenato dalle successive Barbaric e Russian Strings; la prima annuncia anche il tema principale del lavoro, una rottura sentimentale patita dal frontman del gruppo inglese.

Albarn canta infatti: “And I’d like, if you’ve got the time, to talk to you about what this breakup has done to me… I have lost the feeling that I thought I’d never lose… Now where am I going?” sono versi emblematici. Altrove troviamo un brano dedicato al compianto Leonard Cohen, intitolato The Everglades (For Leonard), e una forte critica al leader russo Vladimir Putin (Russian Strings).

I soli 36 minuti di durata del CD evitano qualsiasi tipo di filler: il vero capolavoro è The Narcissist, primo singolo estratto e vera perla collaborativa tra Albarn e Coxon. Buone anche St. Charles Square e The Heights, che chiude ottimamente il lavoro. Invece inferiore Far Away Island.

In conclusione, avere dei Blur così freschi nel 2023, più di 30 anni dopo il loro esordio, è davvero una bella notizia. Non siamo di fronte al loro miglior lavoro, ma “The Ballad Of Darren” si inserisce con merito in una eredità ormai davvero iconica.

45) SZA, “SOS”

(R&B – POP)

Il secondo album di SZA arriva ben cinque anni dopo “CTRL”, che l’aveva fatta conoscere al pubblico di massa e, secondo molti, aveva fatto emergere una nuova grande promessa per l’R&B. Questa lunga attesa è stata in realtà riempita da numerosi singoli, molti dei quali hanno trovato spazio in “SOS”. Ma il prodotto finale è all’altezza delle tante speranze che avevamo riposto in lei?

Malgrado una lunghezza che può apparire eccessiva (23 pezzi per 68 minuti complessivi), buona parte di “SOS” è davvero ben fatta. Pezzi come Kill Bill, Blind e Good Old Days sono irresistibili; purtroppo, altri episodi sono inferiori alla media (SOS, Smoking On My Ex Pack, Conceited), ma non pregiudicano eccessivamente il risultato complessivo. Menzione, infine, per gli ospiti di SZA: abbiamo protagonisti del rap (Don Toliver, Travis Scott) così come dell’indie rock (Phoebe Bridgers).

SZA si conferma quindi musicista di talento; anche i testi, nei loro momenti migliori, sono davvero iconici. “I might kill my ex… Not the best idea”, da Kill Bill, ne è un chiaro esempio. Snooze invece contiene il seguente verso: “How you threatening to leave and I’m the main one crying?”. Infine in Forgiveless, che vanta la collaborazione del defunto Ol’ Dirty Bastard (Wu-Tang Clan), SZA dichiara: “I’m too profound to go back and forth with no average dork”.

Ripetuti ascolti fanno emergere le melodie più riuscite, che avrebbero facilmente composto un CD imperdibile. Pur essendo sovraccarico di canzoni spesso simili le une alle altre, anche in questa forma “SOS” è una forte dichiarazione di intenti: speriamo che la minaccia di SZA di aver pubblicato il suo ultimo lavoro sia esagerata.

44) Mandy, Indiana, “i’ve seen a way”

(ROCK – ELETTRONICA – SPERIMENTALE)

Tutto è bizzarro nel mondo dei Mandy, Indiana: il gruppo ha origini inglesi, ma il suo nome richiama chiaramente i paesaggi degli Stati Uniti. La frontwoman, Valentine Caulfield, è francese e canta nella sua lingua madre. Tutto fa pensare ad un esperimento surreale e destinato al fallimento, ma in realtà “i’ve seen a way” è un album ostico, abrasivo, ma non sbagliato.

L’inizio peraltro farebbe pensare ad un CD elettronico, ma più di stampo anni ’80: i synth dolci di Love Theme (4K VHS) fanno tornare alla memoria le atmosfere della serie Stranger Things. Anche la successiva Drag [Crashed], seppur maggiormente rock e dura, ha delle tendenze dance non banali.

Sono due dei migliori brani del lavoro e delineano solo in parte l’estetica del gruppo; ad esempio, la brevissima Mosaick è puro rumore bianco. Il noise trionfa anche in 2 Stripe, mentre è più tranquilla Iron Maiden. Altro brano interessante è Peach Fuzz, techno di alto livello.

Se qualcuno desidera informazioni sui testi di “i’ve seen a way”, diciamo che non sono la parte più riuscita del disco: un po’ per l’uso che Caulfield fa della sua voce, un po’ per la presenza del francese che rende tutto più musicale ma meno intelligibile, è spesso difficile capire di cosa parlino le canzoni in tracklist. Tra i versi più evocativi abbiamo l’inquietante “Everything is allowed… Finish off your opponent” (Injury Detail), mentre 2 Stripe contiene un verso più ottimista: “Always remember: there are more of us than them”.

In conclusione, “i’ve seen a way”, come annuncia il titolo, ha trovato un sottile equilibrio tra sperimentalismo e accessibilità, almeno nelle sue parti meno rumorose. Non tutto gira alla perfezione, ma nei suoi momenti migliori il CD è davvero riuscito e inserisce i Mandy, Indiana tra le migliori promesse della scena rock sperimentale d’Oltremanica.

43) Sigur Rós, “ÁTTA”

(SPERIMENTALE)

Un nuovo lavoro a firma Sigur Rós, dieci anni dopo “Kveikur”, era un qualcosa di impronosticabile solo alcuni mesi fa. Poi l’annuncio del CD, accompagnato dalla pubblicazione del singolo Blóðberg: una sorpresa graditissima dai fan del gruppo islandese. “ÁTTA” in realtà si distacca in parte dall’estetica post-rock tipica del gruppo islandese, ma resta comunque un lavoro gradevole e riuscito, con picchi innegabili.

Una fondamentale differenza rispetto al passato è che è quasi del tutto assente la batteria; pertanto, le progressioni trionfali che hanno accompagnato alcuni dei momenti migliori del gruppo (Glósóli, Hoppípolla) non sono replicati. Allo stesso tempo, se il miglior pezzo è Klettur, l’unico che ricorda l’estetica di “Kveikur” (2013), vuol dire che i Sigur Rós sanno ancora fare benissimo il loro mestiere. Il frontman Jónsi, dal canto suo, conserva una tonalità tutt’oggi cristallina, anche a quasi trent’anni da inizio carriera.

Come sempre in un album dei Sigur Rós, è difficile discernere le liriche, tanto meno un tema comune: si accenna alla distruzione portata dal cambiamento climatico, ma non si può dire che Jónsi e compagni ribadiscano concetti forti in questo senso.

Il CD suona, infatti, quasi come una suite di musica classica o ambient: un qualcosa che avevamo già intravisto in “Valtari” (2012), uno dei CD più sottovalutati degli islandesi. In generale, alcuni pezzi possono sembrare ripetitivi, soprattutto verso la fine (Mór, Fall), ma nei suoi momenti migliori (Klettur, Blóðberg, Skel) i Sigur Rós si confermano elemento importante della scena musicale europea.

42) Julie Byrne, “The Greater Wings”

(FOLK)

Il terzo CD della cantautrice americana arriva ben sei anni dopo il precedente “Not Even Happiness” (2017). Un intervallo considerevole, in cui il mondo si è sostanzialmente capovolto e Julie ha perso un caro amico e collaboratore, Eric Littmann, morto improvvisamente nel 2021 a soli 31 anni. Un lutto che ricorre spesso in “The Greater Wings”, ad oggi il miglior LP a firma Julie Byrne.

Musicalmente, non sembrano trascorsi sei anni rispetto a “Not Even Happiness”: i suoni sono sempre un elegante mix di folk e ambient, con chiare ispirazioni che vanno da Nick Drake a Mark Hollis, passando per Weyes Blood e Laura Marling. Il pezzo in assoluto migliore è Summer Glass, davvero pregevole; anche la title track e Hope’s Return sono highlight del disco. Inferiore alla media invece Conversation Is A Flowstate. In generale, le dieci tracce del CD scorrono piacevolmente e rendono l’ascolto sempre interessante.

Anche testualmente “The Greater Wings” regala perle: “I want to be whole enough to risk again” (Summer Glass) è uno dei più poetici. Dalla stessa canzone arriva la dedica più sentita a Littmann: “You are the family that I chose”. “I tell you now what for so long I did not say: if I have no right to want you, I want you anyway” (Lightning Comes Up From The Ground) è il più romantico del lotto. Il più bello secondo noi di A-Rock è però il seguente: “Alive, moving through dusk… Alive, if only once, you make me feel like the prom queen that I never was” (Death Is The Diamond).

In conclusione, “The Greater Wings” rappresenta sicuramente un passo avanti per Julie Byrne e un punto di ripartenza per una carriera che sembrava in stallo. L’impressione, però, è che non abbiamo ancora visto tutto il suo talento.

41) Grian Chatten, “Chaos For The Fly”

(FOLK – ROCK)

Il primo disco solista di Grian Chatten, meglio conosciuto come il cantante dei Fontaines D.C., è un CD di classico folk: cantautorato di buona fattura, con la sua voce più calda ed accogliente del solito. In più, rispetto al post-punk del suo gruppo, abbiamo suoni antichi, con l’accompagnamento alla voce della fidanzata Georgie Jesson. Siamo di fronte ad una rivelazione: mai avremmo immaginato Chatten capace di scrivere canzoni delicate ed efficaci come Fairlies e Bob’s Casino.

Nick Drake, Phoebe Bridgers, Neil Young… questi sono i riferimenti passati e presenti del Nostro; il lavoro però, pur non brillando per originalità, ha molte qualità positive. “Chaos For The Fly” è intanto un CD compatto (9 brani per 36 minuti di durata), che evita ogni filler e anzi brilla in certi tratti in maniera abbagliante: la doppietta FairliesBob’s Casino è davvero eccellente. Inoltre, suona coerente da una canzone all’altra, circostanza che incentiva il replay value. L’unica pecca è I Am So Far, inferiore al resto del disco.

In conclusione, “Chaos For The Fly” presenta in maniera magari più sottile, ma non meno palese, il considerevole talento di Grian Chatten: se negli scorsi anni avevamo apprezzato il suo stile punk, con voce nasale e testi a tratti nichilisti, il suo esordio solista ci presenta un personaggio a tutto tondo, capace di tocchi di classe e momenti di sensibilità davvero notevoli.

40) Genesis Owusu, “STRUGGLER”

(PUNK – SOUL – R&B)

“Smiling With No Teeth”, l’esordio di Genesis Owusu uscito nel 2021 e recensito in una puntata della rubrica Rising del nostro blog, denotava un eclettismo davvero unico nel panorama musicale moderno: funk, hip hop e rock si fondevano, spesso con ottimi risultati. “STRUGGLER” ripete questa ricetta tanto confusa quanto affascinante: il cantante australiano conferma tutto quanto di buono si dice di lui, così come alcuni difetti che andranno corretti nel prossimo futuro, se davvero vuole pubblicare il proprio CD definitivo.

Il protagonista del lavoro è chiamato da Genesis “the roach”, ovvero lo scarafaggio: oltre ad avere una canzone dedicata (The Roach appunto), questo personaggio compare in altre canzoni del CD, spesso in mezzo a manifestazioni della crisi climatica in cui siamo immersi. Altrove emergono pensieri di stampo diverso: “Everyday I wake up… Boy I’m battling Goliath” (The Old Man) sembra il pensiero di molti lavoratori la mattina appena alzati.

Queste considerazioni, spesso amare, sono svolte su ritmiche spesso molto suadenti: See Ya There ricorda il Prince più sexy e il D’Angelo dei bei tempi, Tied Up! invece è più R&B, mentre l’iniziale Leaving The Light è sostanzialmente punk e infine What Comes Will Come sembra presa dai Gorillaz. Insomma, non è facile capire l’estetica di Genesis Owusu, ma ripetuti ascolti fanno scoprire dettagli prima ignorati. Menzione finale per la bella voce di Owusu, capace di vette acute celestiali (See Ya There) e profonde declamazioni (The Old Man).

In conclusione, “STRUGGLER” è un LP allo stesso tempo accessibile e sperimentale: Genesis Owusu si conferma figura eccentrica rispetto al panorama musicale contemporaneo. L’australiano sarà ancora impreciso (Balthazar e Stuck To The Fan sono inferiori alla media e rovinano il flusso del disco), ma sembra pronto a spiccare definitivamente il volo. Non vediamo l’ora di recensire il suo terzo CD.

39) Jeff Rosenstock, “HELLMODE”

(ROCK)

Il nuovo lavoro di Jeff Rosenstock è il suo CD più accessibile: accenni di indie rock sono presenti accanto al punk dei suoi passati lavori, le rimanenze hardcore e metal sono scomparse e i ritmi sono spesso meno frenetici. Non per questo bisogna pensare che Jeff si sia ammorbidito: il suo spirito indipendente resta il nucleo di molte canzoni ed “HELLMODE” conferma la sua polemica contro il capitalismo.

Possiamo dividere il lavoro in due parte: la prima, da WILL U STILL U a FUTURE DUMB, contiene le tracce più energiche. Da quel momento fino alla conclusiva 3 SUMMERS abbiamo invece canzoni meno trascinanti e più soffuse, prova ne sia HEALMODE. Diciamo che nella prima sezione siamo dalle parti dei Dead Kennedys, magari più melodici, mentre nella seconda abbiamo come riferimenti i Blink-182 dell’età matura, con un tocco di Ty Segall.

I brani migliori sono DOUBT e FUTURE IS DUMB, mentre è sotto la media SOFT LIVING, piuttosto monotona. Menzione poi per la chiusura: 3 SUMMERS, con i suoi sette minuti abbondanti, è uno dei pezzi più ambiziosi mai composti dal Nostro.

Liricamente, abbiamo liriche oneste su come Jeff intende la vita (“If I can’t help myself from freaking out, how am I gonna live?”, da 3 SUMMERS) così come titoli pessimisti sull’avvenire del nostro pianeta (FUTURE DUMB). Insomma, abbiamo l’usuale contrapposizione “rosenstockiana” tra momenti ironici ed altri di malcelata tristezza.

In conclusione, “HELLMODE” potrebbe rappresentare un momento cruciale nella carriera di Jeff Rosenstock: dopo aver abituato il suo pubblico a CD di stampo punk, spesso duri sia come suoni che come liriche, questo suo ultimo lavoro introduce elementi nuovi. Non tutto gira a meraviglia, ma nei suoi momenti migliori “HELLMODE” è irresistibile.

38) Slowdive, “everything is alive”

(ROCK)

Il nuovo lavoro del leggendario gruppo inglese, alfiere dello shoegaze più etereo, arriva sei anni dopo l’omonimo “Slowdive” (2017), che aveva fatto segnare il ritorno sulle scene degli Slowdive ben 22 anni dopo “Pygmalion” (1995). Non troviamo innovazioni particolari nell’estetica del gruppo, se non qualche accenno di elettronica in shanty e chained to a cloud, la maggiore apertura sulla vita privata dei componenti del gruppo ci fa capire una volta di più che gli Slowdive sono incapaci di comporre brutti CD, anche dal punto di vista lirico.

Un’altra novità rispetto ai passati CD del gruppo è che, spesso, le canzoni hanno carattere prettamente strumentale (prayer remembered è puro ambient): le voci di Rachel Goswell e Neil Halstead non sempre sono percepibili. Non per questo, tuttavia, la loro presenza è trascurabile: in kisses e alife le due tonalità aggiungono valore alle composizioni. Nell’introduttiva shanty sentiamo poi gli Slowdive aprirsi sui lutti che hanno colpito Goswell e il batterista Simon Scott (la prima ha perso la madre, il secondo il padre): “Time runs on once more… Another ghost is born”.

Se c’è un difetto nel CD risiede nell’eccessiva lentezza di alcune melodie: andalucia plays ne è un chiaro esempio. Tuttavia, “everything is alive” è un piacevole LP, che cementa la posizione degli Slowdive come leggende viventi dello shoegaze, grazie a pezzi come kisses e shanty.

37) Troye Sivan, “Something To Give Each Other”

(POP)

Il terzo disco del talentuoso cantante australiano è un concentrato di puro edonismo. Troye Sivan si conferma artista poliedrico e pronto a sperimentare con generi lontani da lui: stavolta abbiamo dance e house come riferimenti. “Something To Give Each Other” è soprattutto, però, un grande disco pop, uno dei migliori del 2023.

Avevamo lasciato Troye nel 2020 con l’intrigante EP “In A Dream”, in cui flirtava con elettronica e folk: una piccola perla. Il suo precedente LP “Bloom” (2018), del resto, era un quasi perfetto CD pop, con brani trascinanti come la title track e My My My!. Insomma, le attese erano molto alte per questo album e Troye non le ha tradite.

Dicevamo che il disco è molto edonista: le liriche di molte canzoni stanno lì a testimoniarlo. La stessa cover, del resto, ci mostra in primo piano Troye con dietro un pube maschile nudo. Rush, il primo singolo estratto, è stato un inno dell’estate, legittimamente: il ritmo è trascinante, perfetto per i balli in spiaggia. Altrove abbiamo anche episodi più tranquilli (Still Got It), ma non sono i più riusciti, anzi; è dove l’elettronica si fonde perfettamente con l’estetica di Sivan che abbiamo canzoni di qualità, si senta ad esempio What’s The Time Where You Are. Evitabile la canzone spagnoleggiante In My Room. Menzioniamo, infine, la concisione di “Something To Give Each Other”: 32 minuti è la perfetta durata per un CD pop ben fatto.

In conclusione, il dibattito è aperto: “Something To Give Each Other” è il miglior CD a firma Troye Sivan? Probabilmente la battaglia è con “Bloom” ed entrambi hanno buoni motivi per volere il trono. Forse “Bloom” si fa leggermente preferire, ma un terzo lavoro come questo, dotato di pezzi irresistibili e di grande coesione, è un sogno per la gran parte degli artisti. Chapeau, Troye.

36) King Krule, “Space Heavy”

(ROCK)

Il quarto album di Archy Marshall a firma King Krule è un raffinamento dello stile più rilassato, sia liricamente che musicalmente, accennato nel precedente “Man Alive!” (2020). King Krule è ormai sinonimo di art rock e brevi momenti psichedelici, un mix di Tom Waits e Mac DeMarco nelle loro migliori versioni: in poche parole, “Space Heavy” è il suo miglior CD dai tempi di “The OOZ” (2017).

Le prime tracce del lavoro sono fra le migliori della tracklist: Flimsier carbura lentamente, ma nel finale è irresistibile. Pink Shell, una delle melodie più agitate del lavoro, è quasi grunge, mentre Seaforth è una ballata, quasi una ninnananna, di ottima fattura. Non tutte le altre canzoni seguono questo fil rouge praticamente impeccabile, ad esempio Tortoise Of Independency e Flimsy sono inferiori, ma altre come Empty Stomach Space Cadet e From The Swamp mantengono alto il livello complessivo, anche nel finale, di “Space Heavy”. A completare il quadro roseo del CD abbiamo la bella voce di Archy, profonda ed evocativa al tempo stesso.

Dicevamo che, anche dal punto di vista testuale, abbiamo un Archy Marshall più rilassato rispetto al passato, forse anche aiutato dalla paternità: in Hamburgerphobia (titolo top) King Krule si sente “separate into the minutest minuscule gaps of time and space”. If Only Was Warmth contiene invece i versi più fatalisti del lavoro: “My head was empty, my life was discreet. A lot has changed, now a lot means to me”.

Jazz, rock e psichedelia sono rintracciabili, in parti diseguali, nel corso di “Space Heavy”: non tutto funziona a meraviglia, ma nei momenti migliori il CD ci ricorda perché pubblico e critica considerino King Krule uno dei più promettenti cantautori della sua generazione.

35) Lana Del Rey, “Did You Know That There’s A Tunnel Under Ocean Blvd”

(POP)

Il nono album della cantautrice americana è al tempo stesso una rivisitazione delle sue passate incarnazioni e uno sguardo al futuro. Tra brani che suonano indubbiamente Lana Del Rey (la title track, Fingertips) ed esperimenti arditi (A&W, Taco Truck x VB), siamo di fronte ad un CD lunghissimo (77 minuti), complesso e a volte prolisso; ancora una volta, però, Lana porta a casa la pagnotta e apre nuovi, interessanti percorsi artistici.

Nuovamente coadiuvata dal fidatissimo Jack Antonoff alla produzione (che compare anche col nome d’arte Bleachers in Margaret), Lana si apre a molte influenze esterne: Father John Misty, Jon Batiste e Tommy Genesis tra gli altri. Abbiamo alcune tra le migliori canzoni mai scritte dalla Nostra: A&W ha tre movimenti all’interno dei suoi sette minuti, The Grants (dedicato alla sua famiglia) è classicamente Del Rey, la conclusiva Taco Truck x VB addirittura remixa Venice Bitch.

Abbiamo poi episodi più sognanti, come Fingertips e Margaret, che fanno tornare con la mente ad “Honeymoon” (2015). Tra i brani che purtroppo vanno oltre c’è Judah Smith Interlude, in cui il pastore di fiducia di Lana declama un’omelia energica quanto fuori luogo nel computo generale del CD. Anche Kintsugi, pur raffinata, è troppo prolissa nei suoi sei minuti abbondanti.

Liricamente, in un album così abbondante di spunti, occorre fare una selezione accurata: The Grants, come già accennato, è dedicata alla sua famiglia. Compaiono riferimenti a parenti anche in Grandfather please stand on the shoulders of my father while he’s deep-sea fishing, in cui viene evocate la figura del nonno quasi come se fosse un guardiano che, dal cielo, protegga il padre di Lana. Peppers, invece, menziona i Red Hot Chili Peppers come figura di riferimento per Lana, mentre Fingertips pone domande che, prima o poi, influenzano tutti: “Will the baby be all right? Will I have one of mine? Can I handle it even if I do?”.

“Did You Know That There’s A Tunnel Under Ocean Blvd” è un LP complesso, che richiede più ascolti per essere analizzato con cognizione di causa. Non siamo di fronte al miglior lavoro a firma Lana Del Rey, “Norman Fucking Rockwell!” (2019) resta inarrivabile, ma l’abbondante creatività e ambizione di Lana fanno pensare che il suo serbatoio sia ancora pieno di belle canzoni.

34) Indigo Da Souza, “All Of This Will End”

(ROCK)

Il terzo CD della giovane cantante indie statunitense aggiunge ulteriori livelli di lettura ad un’artista considerata, non a torto, tra le più promettenti della sua generazione. All’indie rock che caratterizzava “I Love My Mom” (2018) ed “Any Shape You Take” (2021) si aggiungono momenti quasi country (Younger & Dumber), che rendono questo lavoro davvero interessante.

Uno degli aspetti interessanti di “All Of This Will End” è che la seconda parte è migliore della prima: un fatto insolito, che dimostra la volontà di De Souza di dare modo all’ascoltatore di apprezzare ogni aspetto del CD, senza presumere nulla. Esemplari in questo caso Not My Body e Younger & Dumber, che chiudono magistralmente “All Of This Will End”, mentre la traccia più debole, Losing, è la terza della tracklist.

Liricamente, si conferma l’innata abilità di Indigo De Souza di indagare sul proprio passato per trarne lezioni di vita: “You came to hurt me in all the right places… Made me somebody” canta orgogliosa in Younger & Dumber. Altrove troviamo riferimenti ad una relazione finita male, in cui però lei prova a perdonare il partner: “I’d like to think you got a good heart and your dad was just an asshole growing up” (You Can Be Mean). Il verso più efficace, sempre su questo tema, è però contenuto in Time Back: “You fucked me up”.

In conclusione, un LP che contiene pezzi riusciti come You Can Be Mean, Smog e Younger & Dumber non può che essere, almeno in parte, riuscito. Non tutto è perfetto in “All Of This Will End”, soprattutto la prima sezione come già accennato, ma Indigo De Souza si conferma cantautrice di assoluto rilievo. Chissà che ancora non debba pubblicare il suo capolavoro…

33) billy woods & Kenny Segal, “Maps”

(HIP HOP)

Il nuovo album collaborativo tra il rapper billy woods e il produttore Kenny Segal segue “Hiding Places” (2019) e si inserisce nelle estetiche dei due in maniera efficace: beat jazzati e sperimentali, testi duri ed evocativi. Aiutati da ospiti di spessore della scena rap alternativa (Danny Brown, Quelle Chris ed E L U C I D tra gli altri), woods e Segal hanno pubblicato uno dei migliori CD rap del 2023.

La struttura di “Maps” può risultare frammentata, abbiamo infatti diverse canzoni sotto i due minuti, ma vi sono degli highlights innegabili, da Year Zero (con un grande Danny Brown) a Babylon By Bus, che rendono l’ascolto del CD consigliato per tutti gli amanti dell’hip hop versante East Coast. Gli episodi meno riusciti sono invece Kenwood Speakers e Bad Dreams Are Only Dreams.

Come autore dei testi, billy woods si conferma abilissimo, soprattutto a enunciare in pochi versi concetti duri da accettare: “Delivery fee is ooof” (Rapper Weed), anche se riferito ad una “merce” diversa dal solito, rappresenta un pensiero comune. “I already knew the options was lose-lose. Baby, that’s nothing new… That just make it easier to choose” (The Layover) è invece un riassunto efficace dell’intera filosofia di vita di woods.

Dal canto suo, Segal è molto abile a creare un’atmosfera old style, in cui sample svariati, da Feeling Good a pezzi al sassofono, sono mescolati con tastiere scure, malinconiche. Non parliamo di una rivoluzione nel mondo hip hop, The Alchemist e Madlib sono maestri in questo, ma Segal non ha nulla da invidiare a questi maestri in “Maps”.

In conclusione, “Maps” è un buonissimo CD: billy woods e Kenny Segal si confermano coppia affiatata. Il CD è, infatti, uno dei migliori lavori hip hop dell’anno.

32) Tim Hecker, “No Highs”

(ELETTRONICA – SPERIMENTALE)

Il nuovo album del musicista canadese, uno dei veterani della scena ambient d’Oltreoceano, arriva quattro anni dopo “Anoyo” (2019) e contribuisce a rendere la sua discografia sempre più un punto di riferimento per gli amanti del genere. Nulla di nuovo per i fan di Tim Hecker: semplicemente, un’aggiunta di spessore ad un’eredità artistica sempre più imponente.

I toni del lavoro sono meno minacciosi rispetto ad altri lavori del Nostro: “Virgins” (2013) ad esempio era molto più potente e dissonante. Allo stesso tempo, la doppietta “Konoyo” (2018) – “Anoyo”, in cui Hecker sperimentava con antichissimi strumenti giapponesi, era decisamente meno accessibile. “No Highs” pertanto serve come un pieno ritorno alla forma per il canadese, una sorta di aggiornamento sullo stato dell’arte della musica d’ambiente contemporanea.

La struttura del lavoro è ben bilanciata: quattro brani principali, di lunghezza oltre i 6 minuti, sono piazzati ad inizio, primo quarto, ultimo quarto e fine lavoro. Attorno a loro Hecker ha posizionato delle canzoni più accessibili, in modo tale da moderare lo sforzo per l’ascoltatore. I momenti migliori si ritrovano in Monotony, che apre magistralmente il CD; belle anche la più quieta Lotus Light e Anxiety. Dimenticabili invece Sense Suppression e Glissalia. Menzioniamo infine la collaborazione del sassofonista Colin Stetson in Monotony II.

In conclusione, “No Highs” conferma una volta di più il talento compositivo di Tim Hecker: il musicista canadese è ormai un’istituzione e questo LP non fa che confermarne una volta di più il grande talento.

31) Queens Of The Stone Age, “In Times New Roman…”

(ROCK)

Il nuovo album della band comandata da Josh Homme è un ritorno alle origini hard rock del gruppo: i riff sono potenti, gli accenni dance di “Villains” (2017) scomparsi, la batteria picchia forte. In più, i testi sono dark e personali come mai nella carriera dei QOTSA. “In Times New Roman…” sotto molti aspetti suona quindi come un album reazionario, ma la realtà è che siamo di fronte al loro miglior LP dai tempi di “…Like Clockwork” (2013).

I singoli di lancio (Emotion Sickness, Paper Machete e Carnavoyeur) in effetti erano tutti di buona fattura e avevano fatto salire le aspettative per il CD, il primo dei Queens Of The Stone Age dal 2017. Promesse pienamente mantenute: da Negative Space all’epica chiusura di Straight Jacket Fitting, passando per Sicily, abbiamo un disco compatto e organico, con il tipico sound QOTSA, non necessariamente una pecca.

Dicevamo che liricamente il lavoro è il più personale mai scritto da Homme e compagni: il frontman della band americana ha avuto diversi lutti negli ultimi anni, sia in ambito strettamente privato (il divorzio e le dispute con l’ex moglie Brody Dalle) che legato ad amici purtroppo scomparsi (su tutti, Mark Lanegan). Riferimenti a questo, oltre che al cancro per cui è stato operato recentemente con successo, sono sparsi un po’ ovunque: “I know you’d use anything, anyone, to make yourself look clean. In sickness, no vows mean anything” (Paper Machete), “Baby don’t care for me” (Emotion Sickness), “Every living thing will die, from the king of the jungle to butterfly” (Carnavoyeur) sono solo i più significativi.

È un peccato che la parte centrale di “In Times New Roman…” sia influenzata da brani deboli come Time & Place e Made To Parade, altrimenti davvero avremmo un capolavoro per le mani, ai livelli di “Songs For The Deaf” (2002). È comunque rinfrescante sentire una band di veterani dell’hard rock suonare così a loro agio, pur in tempi così difficili e dopo tragedie tanto grandi. Chapeau, regine dell’età della pietra.

30) Wednesday, “Rat Saw God”

(ROCK)

Il terzo album dei Wednesday vede la band americana ancora vogliosa di sperimentare con generi tanto diversi come rock, shoegaze e country, con risultati spesso interessanti. In generale, il mondo indie continua a sfornare album rilevanti in questi ultimi tempi, spesso con artiste al comando: basti pensare a Phoebe Bridgers, Mitski, Lucy Dacus e gli Alvvays, tra gli altri.

I Wednesday in effetti si inseriscono in un filone molto prolifico, ma nessuno ad oggi suona come loro: certo, abbiamo elementi dei già menzionati Alvvays (Hot Rotten Grass Smell), così come del grunge anni ’90 (Quarry). Tuttavia, un pezzo epico e proteiforme come Bull Believer è indizio di un talento fuori dal comune. Buone anche la più classicamente indie Chosen To Deserve e Quarry, mentre sotto la media resta Got Shocked, un po’ scontata.

Il CD vale come una sorta di percorso di crescita per la band capitanata da Karly Hartzman: vengono evocati i luoghi della sua infanzia: “We always started by telling our best stories first… Now that it’s been awhile I’ll get around to tellin’ you all my worst”, da Chosen To Deserve, è uno dei manifesti del lavoro. Nella stessa canzone troviamo poi un verso davvero malinconico: “Now all the drugs are gettin kinda boring to me, now everywhere is loneliness and it’s in everything”.

In conclusione, “Rat Saw God” è un gradevole CD indie rock. I Wednesday si confermano ambiziosi e pronti al grande salto: vedremo il futuro dove li condurrà, per il momento godiamoci uno dei migliori LP rock del 2023.

29) JPEGMAFIA & Danny Brown, “Scaring The Hoes”

(HIP HOP – SPERIMENTALE)

Il primo album collaborativo dei due rapper iconoclasti per eccellenza è un esperimento estremo, dati i canoni dell’hip hop moderno: industrial, punk e noise creano delle basi imprevedibili, su cui i due declamano versi spesso polemici verso l’industria discografica o i loro pari. Non stiamo chiaramente parlando di un CD per tutti, ma è da provare se si ama l’hip hop più sperimentale.

A guidare è chiaramente JPEGMAFIA, che si prende anche gli oneri della produzione; quest’ultima in un certo senso, a seconda dell’ascoltatore, può rivelarsi un punto di forza o di debolezza dell’intero lavoro. Le basi sono sempre in primo piano, spesso a danno delle voci dei Nostri; ciò è inusuale soprattutto per Brown, nei cui CD solisti spesso abbiamo la sua tonalità nasale in grande rilievo.

Tuttavia, nei suoi momenti migliori “Scaring The Hoes” fornisce molti spunti di attenzione: i due singoli di lancio, Lean Beef Patty e la title track, sono tra le migliori tracce del lotto. Buona anche Garbage Pale Kids, con base davvero potente. Di difficile comprensione invece Fentanyl Tester, ma se non altro resta coerente col mood folle del CD.

È frequente rintracciare nel corso di “Scaring The Hoes” invettive contro l’industria discografica: ne è un esempio questo verso, preso da Steppa Pig: “It’s like I’ve been workin’ for crumbs, now I’m feelin’ free as my speech”. In Lean Beef Patty oggetto dei versi di JPEGMAFIA e Danny Brown è Elon Musk, in particolare la sua controversa gestione di Twitter. Abbiamo poi due brani che citano esplicitamente altri rapper di successo negli Stati Uniti: Run The Jewels e Jack Harlow Combo Meal.

In conclusione, siamo di fronte ad uno dei dischi più stralunati dell’ultimo periodo; ma del resto cosa potevamo aspettarci da due menti vulcaniche come JPEGMAFIA e Danny Brown? “Scaring The Hoes” non è un LP perfetto, ma i suoi momenti più memorabili lo rendono un’esperienza musicale davvero unica.

28) James Blake, “Playing Robots Into Heaven”

(ELETTRONICA)

Pensavamo che ormai il lato più elettronico di James Blake fosse stato messo da parte, in favore di una maggiore attenzione al cantautorato: prova ne era stato il recente “Friends That Break Your Heart” (2021). In “Assume Form” (2019) James flirtava addirittura con hip hop e ritmi latini, con risultati alterni.

Questo “Playing Robots Into Heaven” avrebbe invece potuto rimpiazzare, in una timeline alternativa, il suo esordio “James Blake” (2011): ritmi dance, dubstep e in generale un forte sperimentalismo la fanno da padrone, dimostrando la grande versatilità del Nostro. Pezzi come Tell Me e Loading sono tra i migliori della sua recente produzione e rendono il CD imperdibile per gli amanti dell’elettronica.

Soprattutto la prima parte del lavoro è davvero riuscita: le già menzionate Tell Me, trascinante come la miglior musica dance sa essere, e Loading, giustamente scelto come singolo di lancio da Blake, sono allo stesso, alto livello. Da menzionare poi anche l’ossessiva Fall Back, che pare presa dai primi EP pubblicati in gioventù dal produttore inglese.

La seconda parte del CD non è alla stessa altezza: He’s Been Wonderful è bella nella sua parte elettronica, ma i campionamenti gospel non funzionano. Big Hammer è un po’ ripetitiva, soprattutto dopo vari ascolti. Allo stesso tempo, troviamo pezzi di livello come I Want You To Know e Fire The Editor, che reggono il finale del lavoro.

In generale, tuttavia, è da elogiare l’ambizione di James Blake: produttore affermato, collaboratore di star del calibro di Travis Scott e Frank Ocean, il Nostro non ha abbandonato le radici dubstep e questo “Playing Robots Into Heaven” ne è la dimostrazione. E se fossimo di fronte al suo miglior LP dai tempi di “Overgrown” (2013)?

27) Protomartyr, “Formal Growth In The Desert”

(PUNK – ROCK)

Il sesto album della band punk statunitense arriva tre anni dopo “Ultimate Success Today” (2020), l’album ad oggi migliore dei Protomartyr, che sembrava aprire ad un sound più accessibile, quasi indie rock. “Formal Growth In The Desert”, da questo punto di vista, ritorna su terreni più conosciuti per i fan della prima ora del gruppo di Detroit: un post-punk sanguigno, denso, con liriche pessimiste e allo stesso tempo spesso poetiche. Nella seconda parte del lavoro abbiamo delle esplorazioni di terreni quasi ambient (Let’s Tip The Creator) e shoegaze (We Know The Rats), che ci fanno sperare che i Protomartyr abbiano ancora benzina nel loro serbatoio.

Il primo CD post-pandemico del gruppo non contiene, come abbiamo visto per altri artisti, riferimenti agli anni difficili che abbiamo vissuto; piuttosto, Joe Casey e compagni affrontano temi disparati (come l’estinzione delle tigri e le colpe che abbiamo noi umani, nonché episodi di tragica cronaca del passato) per descrivere il forte stato di malessere che li pervade. Esemplificativi di tutto ciò sono i seguenti versi: “She’d want me to try and find happiness in a cloudless sky” (Graft Vs. Host, in cui Casey ricorda la madre recentemente morta); “There’s 3,800 tigers in this world, but there’s far too many of you… of you, fools” (3800 Tigers). Il verso più ironico è contenuto in Fulfillment Center: “This is the story of Dismas and Dawn, two conceits to make the song more heartbreaking”.

Va detto che complessivamente il CD si mantiene su binari graditi: il sound risulta organico nel corso dei 37 minuti di durata, fattore che aumenta il replay value di “Formal Growth In The Desert”. Le migliori canzoni sono For Tomorrow (veloce al punto giusto) e la più raccolta Let’s Tip The Creator, mentre sotto la media resta The Author.

In conclusione, “Formal Growth In The Desert” ribadisce la ritrovata vena dei Protomartyr. Giunti al sesto LP di inediti, i Nostri si confermano band imprescindibile per la scena punk americana. “Ultimate Success Today” risulta leggermente superiore, ma questo lavoro non farà che cementare quanto di buono già è stato detto sui Protomartyr.

26) Kali Uchis, “Red Moon In Venus”

(R&B)

Il terzo album della cantante di origine colombiana è un concentrato del miglior R&B: sensuale, creativo e sempre curato nei minimi particolari. Kali Uchis continua così una carriera di grande successo, sia di pubblico che di critica: dopo il felice esordio “Isolation” (2018) e il buon seguito “Sin Miedo (Del Amor Y Otros Demonios) ∞” (2020), “Red Moon In Venus” allarga ancora gli orizzonti della Nostra verso psichedelia e soul.

Il singolo di lancio, I Wish You Roses, è una delle canzoni più belle a firma Kali Uchis; ma abbiamo anche altre perle. Non possiamo infatti tralasciare Moonlight e Blue; sono inferiori alla media solo Fantasy e l’inutile In My Garden, lunga appena 25 secondi. Tuttavia, i risultati complessivi sono ottimi: il CD suona coeso, nessun brano è fuori posto e la voce di Uchis è sempre al top.

Il CD suona organicamente sia nella musica che nei testi: al centro del disco troviamo l’amore, in tutte le sue forme, da quello più materiale (Hasta Cuando) a quello più apparentemente inscalfibile (“Wanna spoil me in every way… It’s Valentine’s like every day”, da Endlessly), passando per le rotture sentimentali (“When you’re all alone, you’ll know you were wrong”, canta Kali in Moral Conscience). Da questo punto di vista, I Wish You Roses contiene il verso che sintetizza l’intero LP: “With pretty flowers can come the bee sting… But I wish you love”.

In conclusione, “Red Moon In Venus” è uno dei migliori LP R&B del 2023 finora: Kali Uchis si conferma popstar di grande talento, pronta a scrivere pagine sempre più rilevanti per la musica moderna.

Eccoci giunti alla fine della prima parte della lista dei 50 migliori album dell’anno secondo A-Rock. Chi si sarà aggiudicato la palma di album più bello del 2023? Appuntamento a Natale. Stay tuned!

I 5 album più deludenti del 2023

Il 2023 ha regalato momenti di ottima musica, ma anche altri davvero di basso livello. Prova ne siano i cinque elencati di seguito, prodotti da 6ix9ine, Jonas Brothers, Lewis Capaldi, Roger Waters e Thirty Seconds To Mars. Come sempre, scegliamo di listarli in ordine alfabetico, non è possibile stilare classifiche dal meno brutto al peggiore in assoluto. Buona lettura, ma ne sconsigliamo vivamente l’ascolto.

6ix9ine, “Leyenda Viva”

leyenda viva

Chi segue da qualche tempo A-Rock sa che 6ix9ine è un habitué di questo tipo di lista. Il suo modo di fare musica, aggiunto ad una personalità tanto vulcanica quanto irritante e ad una fedina penale davvero inquietante, lo rendono un bersaglio perfetto e meritevole di apparire nella lista dei peggiori album dell’anno.

“Leyenda Viva”, dal canto suo, ha due innegabili qualità: tenta di innovare l’estetica di 6ix9ine virando sul reggaeton e dura solamente 31 minuti. Per il resto, però, parliamo di un CD davvero brutto: nessuna canzone resta impressa se non per lo shock iniziale del cambio di genere, con i nadir di Dueño, Papa e Perra che rendono davvero nullo il replay value. Non si intravede la luce all’orizzonte e anche commercialmente 6ix9ine comincia a perdere colpi: carriera al tramonto?

Jonas Brothers, “The Album”

the album

Qualcuno sentiva davvero la mancanza di un nuovo album dei Jonas Brothers? Se il ritorno del 2019 era stato imprevisto ma non per forza deludente, “The Album” raddoppia la formula pop-rock sdolcinato e per ragazzi ormai cresciuti che ha fatto la fortuna della band, con risultati sconfortanti.

La cosa buona del CD è che dura appena 32 minuti, quindi il replay value è leggermente migliore di altri album più prolissi. Tuttavia, canzoni fuori luogo come Celebrate! e Summer In The Hamptons rendono la parte centrale del lavoro davvero scadente. Speriamo che, se avremo altri LP a firma Jonas Brothers, i Nostri siano in grado di migliorare o, almeno, cambiare un po’ la loro estetica, ormai davvero datata.

Lewis Capaldi, “Broken By Desire To Be Heavenly Sent”

broken by desire to be heavenly sent

Tutti simpatizziamo con Lewis Capaldi riguardo alla sindrome di Tourette, da cui è affetto da qualche tempo. Molti avranno visto il video della sua esibizione dal vivo, in cui il pubblico completava le sue canzoni con lui impossibilitato a farlo a causa della sua patologia.

Tuttavia, musicalmente “Broken By Desire To Be Heavenly Sent” è un flop su tutta la linea: canzoni prevedibili, la voce di Lewis sempre più irritante ad ogni ascolto del CD… insomma, un fiasco totale. Prova ne siano Any Kind Of Life e Love The Hell Out Of You: Capaldi, in breve, è un Ed Sheeran di minor successo.

Roger Waters, “The Dark Side Of The Moon Redux”

the dark side of the moon redux

La domanda sorge spontanea: che bisogno c’era di reinterpretare uno degli album più significativi della storia della musica, inserendo discutibili intervalli discorsivi per promuovere le proprie idee politiche e non invitando alcuno degli altri membri del gruppo di lavoro che avevano reso “The Dark Side Of The Moon” così speciale?

Nessuno, se non il desiderio di fare quanti più soldi possibili. Per questo, a prescindere dal merito o meno dell’operazione, “The Dark Side Of The Moon Redux” merita di stare in questa lista. Spiace dirlo, ma Roger Waters rischia seriamente di aver perso il rispetto di buona parte della scena musicale e di molti suoi fan.

Thirty Seconds To Mars, “It’s The End Of The World, But It’s A Beautiful Day”

it's the end of the world but it's a beautiful day

Il nuovo album dei Thirty Seconds To Mars arriva a cinque anni dal deludente “AMERICA” e, in qualche modo, peggiora una situazione che già non partiva dai migliori auspici. Purtroppo, Jared Leto e compagni hanno perso quella fiamma che li rendeva magari eccessivi, ma interessanti ad inizio anni ’00 e la loro carriera ha preso una china discendente davvero preoccupante.

“It’s The End Of The World, But It’s A Beautiful Day” è un mediocre CD da ogni punto di vista: composizione dei brani, produzione, liriche… si salva poco o nulla, insomma. È come se i Thirty Seconds To Mars avessero preso il peggio di Imagine Dragons, Maroon 5 e The Chainsmokers per farne un LP: i risultati non potevano che essere deludenti.