Recap: febbraio 2023

Febbraio è stato un mese ricco di uscite musicali interessanti, su tutte il nuovo lavoro dei Gorillaz. A-Rock ha inoltre recensito i CD di Parannoul, shame, Paramore e Young Fathers. Infine, spazio a Lil Yachty, Kelela, Caroline Polachek e alla prima raccolta dei The Strokes. Buona lettura!

Caroline Polachek, “Desire, I Want To Turn Into You”

desire I want to turn into you

Il secondo album solista di Caroline Polachek, un tempo metà dei Chairlift, è il suo lavoro più completo ed ambizioso. Esplorando territori tanto diversi come il flamenco (Sunset), il trip hop (Pretty In Possible) e la trance (I Believe), Caroline si afferma come autrice pop a tutto tondo: i paragoni con Björk e Kate Bush saranno forse prematuri, ma “Desire, I Want To Turn Into You” è davvero strabiliante a tratti.

Uscito il giorno di San Valentino, il CD è in effetti molto legato al tema del desiderio e dell’amore nel senso più ampio dei due termini: Polachek, infatti, ha composto un lavoro tanto sensuale quanto misterioso, con testi a volte diretti (“Salty flavor, lies like a sailor… But he loves like a painter”, da Billions) ma altre criptici (Crude Drawing Of An Angel). Ripetuti ascolti mettono poi sempre più in risalto la bellezza della voce di Caroline, capace di toccare vette altissime e sempre molto espressiva.

Il prolungato rollout del CD, i cui singoli hanno iniziato a circolare addirittura dal 2021 (a quell’anno risale Bunny Is A Rider, uno dei pezzi forti del lavoro), non ha intaccato l’hype dietro “Desire, I Want To Turn Into You”, anzi ha contribuito ad accrescere l’attesa di pubblico e critica: i risultati sono davvero eccellenti e fanno di Caroline Polachek un volto di punta del pop sofisticato. Pezzi come la già citata Bunny Is A Rider e Welcome To My Island sono notevoli; non tralasciamo poi Billions e Sunset. A dire il vero, nessuno dei dodici brani della tracklist è mediocre, forse solo Hopedrunk Everasking è inferiore alla media (altissima) del disco.

In conclusione, “Desire, I Want To Turn Into You” è ad oggi il miglior LP pop del 2023 e già un serio candidato per la top 5 nella classifica dei migliori album del 2023 di A-Rock.

Voto finale: 8,5.

shame, “Food For Worms”

food for worms

Il terzo CD della band punk-rock britannica è il loro lavoro più compiuto. Partendo dalla spontanea rabbia di “Songs Of Praise” (2018) e passando per il punk duro di “Drunk Tank Pink” (2021), gli shame si sono evoluti in un gruppo capace di affrontare con disinvoltura l’indie rock (Adderall) così come il rock psichedelico (Six-Pack) e le ballate (All The People).

I singoli di lancio del lavoro, del resto, avevano creato alte aspettative verso “Food For Worms”: Fingers Of Steel è un ottimo pezzo sospeso a metà tra post-punk e indie rock, Adderall una ballata irresistibile e dal testo davvero toccante, infine Six-Pack è quasi sperimentale. A questo aggiungiamo la produzione di Flood, già collaboratore in passato di U2, Nine Inch Nails e PJ Harvey.

I 43 minuti del CD in questo modo sono davvero gradevoli, non ci sono momenti davvero deboli (forse solo The Fall Of Paul è inferiore agli altri brani in scaletta). I migliori momenti sono Fingers Of Steel e Adderall, buona anche l’epica Different Person.

Accennavamo prima al fatto che anche liricamente il lavoro è davvero riuscito: in Adderall Charlie Steen e compagni raccontano la progressiva dipendenza dai farmaci di un loro amico, “I know it’s not a choice, you open up the doors, then you hear another voice” è il verso più potente. Yankees narra di una relazione tossica: “When you’re down, you bring me down… And that is love, so you say”. Non tralasciamo poi Different Person, che affronta il tema di un’amicizia finita e la sensazione di sconfitta che pervade le due parti: “You say you’re different, but you’re still the same!” suona quasi come una preghiera, destinata ad infrangersi sulla dura realtà.

“Food For Worms” è quindi davvero un LP di grande livello, ma già sapevamo del talento degli shame, tra i principali esponenti della nidiata miracolosa del post-punk/indie rock d’Oltremanica. Ognuno ha le sue preferenze su chi siano i leader (basti citare IDLES, Fontaines D.C. e black midi), ma Steen e co. sono sicuramente dei pilastri della scena rock britannica.

Voto finale: 8,5.

Young Fathers, “Heavy Heavy”

heavy heavy

Avevamo perso le speranze di avere un nuovo CD degli Young Fathers, trascorsi ormai cinque anni dal riuscito “Cocoa Sugar” (2018); sarebbe stato un vero peccato, data la bontà del progetto e l’ambizione mostrata dal gruppo scozzese, vero innovatore della scena rap d’Oltremanica.

Il precedente lavoro degli Young Fathers mescolava sapientemente infatti hip hop, soul e pop, creando una miscela difficilmente replicabile. Infatti, anche Graham “G” Hastings, Alloysious Massaquoi e Kayus Bankole hanno impiegato diverso tempo per dare un degno seguito a “Cocoa Sugar”: i risultati, da questo punto di vista, sono nuovamente buonissimi.

Il disco prosegue il lavoro iniziato con “Cocoa Sugar”, andando ancora più all’essenziale: tracce di massimo tre minuti e mezzo di durata, ritornelli pop immersi in atmosfere che richiamano elettronica, art pop e ritmi africaneggianti. Non tutto è perfetto e il CD richiede più ascolti per essere apprezzato appieno, ma una volta entrati nella atmosfere di “Heavy Heavy” è molto difficile uscirne.

I brani migliori sono l’introduttiva Rice e I Saw, mentre leggermente sotto la media è Shoot Me Down. Da non sottovalutare poi Ululation, che ricorda gli Animal Collective di “Merriweather Post Pavilion” (2009).

In generale, gli Young Fathers si confermano band imprescindibile per la scena hip hop sperimentale, ma sarebbe un errore ridurli a quel sound: quanti artisti troviamo in giro attualmente capaci di mescolare così abilmente rap, pop ed elettronica? “Heavy Heavy” potrebbe essere quello che “Currents” (2015) è stato per i Tame Impala: il CD della definitiva esplosione.

Voto finale: 8,5.

The Strokes, “The Singles – Volume 01”

the singles volume 01

La parabola dei The Strokes, una delle più importanti band a emergere dalla scena indie statunitense nei primi anni ’00, è emblematica: dapprima due bellissimi dischi, che parevano lanciarli nell’Olimpo del rock, rispettivamente “Is This It?” (2001) e “Room On Fire” (2003). Poi un periodo di rendimenti decrescenti, a causa di un’eccessiva aderenza ad una formula ormai logora, culminato in “Comedown Machine” (2013). Infine, una lunga pausa, che ha portato alla resurrezione e al lieto fine, “The New Abnormal” (2020).

Questa raccolta ci aiuta a far luce sul primo periodo della vita del gruppo, fino a “First Impressions Of Earth” (2006): il più florido, contraddistinto da hit indelebili come Someday, Last Nite, Reptilia e You Only Live Once. Abbiamo poi anche le b-side e le prime edizioni di Last Nite e The Modern Age. Insomma, per i fan della prima ora si tratta di un CD imperdibile, ma anche gli ascoltatori casuali troveranno del rock di ottima fattura, che aiuta a farsi un’idea di come fosse il rock di venti anni fa.

Non tutto è allo stesso, altissimo livello: per esempio, When It Started impallidisce accanto ai pezzi più celebri e fa intuire che la scelta di relegare a b-side questo brano da parte dei The Strokes è stata azzeccata. Malgrado ciò, “The Singles – Volume 01”, come anche il titolo fa presagire, è un’ottima raccolta e ci fa sperare di vedere altre edizioni relative al periodo più maturo della band newyorkese. Non staremo parlando dei loro anni migliori, ma singoli come Under Cover Of Darkness e Machu Picchu meritano una retrospettiva.

Voto finale: 8,5.

Parannoul, “After The Magic”

After the Magic

Il nuovo lavoro del progetto coreano mantiene il mistero sull’identità del suo creatore, ma amplia ulteriormente lo spettro sonoro di Parannoul. Se “To See The Next Part Of The Dream” (2021), disco d’esordio del Nostro, era in gran parte assimilabile allo shoegaze, “After The Magic” introduce elementi di dream pop (We Shine At Night), emo (Parade) ed elettronica (Sketchbook), rendendolo un CD ancora più interessante del precedente.

Parannoul si descrive come “sotto la media in altezza, peso e prestanza fisica, un perdente”; questo malessere era palpabile nel precedente lavoro, mentre “After The Magic” ha sonorità più ottimiste, a tratti nostalgiche. I 59 minuti di durata non risultano pesanti, anzi la varietà di stili del CD li rendono leggeri; non per questo però il tutto risulta incoerente. L’estetica di Parannoul resta riconoscibile, solo pezzi come Sketchbook e Imagination non sarebbero stati bene in “To See The Next Part Of The Dream”, mentre entrano perfettamente nei canoni estetici di “After The Magic”.

I brani migliori sono Arrival e Polaris, forse sotto la media resta solo Sound Inside Me, Waves Inside You, ma non per questo il lavoro perde mordente.

Parannoul, in conclusione, ha confermato tutto il suo talento con “After The Magic”: il CD si arricchisce di elementi nuovi ad ogni ascolto, aumentando esponenzialmente il replay value. In poche parole: lavoro imperdibile per gli amanti dello shoegaze e del rock in senso più ampio.

Voto finale: 8.

Kelela, “Raven”

raven

Il secondo album di Kelela arriva ben sei anni dopo “Take Me Apart” (2017), che aveva occupato una nicchia molto particolare: un disco ibrido, R&B tanto quanto elettronico, conturbante ma anche opprimente in certi passaggi. “Raven” prosegue in questo solco, aggiungendo ulteriore profondità e varietà ad uno stile già perfettamente riconoscibile.

La lunga assenza di Kelela dalla scena musicale si può spiegare in vari modi: la pandemia, i movimenti Black Lives Matter e la sua ricerca di privacy hanno avuto un peso, ma sicuramente una sorta di blocco dello scrittore ha influito sulla sua difficoltà a dare un degno seguito a “Take Me Apart”. I risultati, però, meritano più di un ascolto.

“Raven” suona a tratti come “Renaissance” di Beyoncé, ma molto meno pop e più club: prova ne siano Happy Ending e Missed Call, che flirtano con la musica breakbeat. Invece Washed Away e Holier sono quasi ambient. Interessante poi la scelta di iniziare e concludere il CD con i due pezzi gemelli Washed Away e Far Away.

I pezzi migliori sono Happy Ending e Contact, mentre restano sotto la media Closure e Divorce. Menzione poi per la doppietta di centro album RavenBruises, di chiaro stampo elettronico.

In conclusione, “Raven” riporta Kelela sotto i riflettori e conferma tutto il suo talento. Speriamo solo che il successore di questo LP non si faccia attendere altri sei anni.

Voto finale: 8.

Gorillaz, “Cracker Island”

cracker island

L’ottavo album della band animata più famosa del mondo conta nuovi ospiti nell’universo Gorillaz (Tame Impala, Thundercat, Bad Bunny), ma non altrettanta voglia di esplorare nuovi orizzonti musicali. Non siamo di fronte ad un cattivo lavoro, tuttavia Damon Albarn e compagni per la prima volta in una carriera gloriosa hanno fatto affidamento più sul mestiere che sulla creatività.

“Cracker Island” segue “Song Machine, Season One: Strange Timez” (2020), uno dei migliori CD dei Gorillaz: pertanto, l’attesa era molto alta anche per questo lavoro. I singoli di lancio erano stati fin troppi, contando che su dieci canzoni ne avevamo già sentite ben cinque. Non che la qualità scarseggiasse, anzi: New Gold (che conta la collaborazione di Kevin Parker dei Tame Impala) è funk di rara fattura, Silent Running e Baby Queen sono poco dietro.

Altre tracce invece calcano terreni più conosciuti dai fan di lunga data del gruppo britannico: The Tired Influencer e Tarantula ne sono chiari esempi. Fa storia a sé Tormenta, prima canzone di stampo latino dei Gorillaz, con il famosissimo Bad Bunny. Da menzionare infine Oil, che vanta la presenza di Stevie Nicks (Fleetwood Mac).

In conclusione, “Cracker Island” non passerà alla storia come il miglior LP a firma Gorillaz: quel posto rimarrà probabilmente occupato da “Demon Days” (2005) oppure da “Plastic Beach” (2010). Questo è plausibilmente l’ultimo momento in cui la ricetta del gruppo, fatta di pop orecchiabile con inserti elettronici ed hip hop, ha rendimenti positivi. La coperta rischia di diventare presto corta.

Voto finale: 7,5.

Paramore, “This Is Why”

this is why

Il sesto album dei Paramore li trova ad un bivio: sei anni dopo il riuscito “After Laughter” (2017), in cui Hayley Williams e compagni sembravano aver adottato un suono più pop, con in mezzo anche i due album solisti della Williams pubblicati nel 2020 e nel 2021, “This Is Why” è uno snodo importante per i Paramore. I risultati sono buoni, anche se alcuni pezzi suonano troppo derivativi rispetto al meglio che la band ha offerto nel corso della sua ottima carriera.

I singoli di lancio andavano dal post-punk (The News) alla new wave stile Talking Heads e Franz Ferdinand (This Is Why), per finire con un mediocre brano pop-punk (C’Est Comme Ca). Gli altri pezzi della tracklist vanno dal buono (Running Out Of Time) al monotono (Liar), con in mezzo discrete prove come Figure 8 e You First.

Liricamente, il CD contiene accuse pesanti (“No offense, but you got no integrity”, da Big Man Little Dignity) così come insulsi ritornelli (“na-na-na-na-na” in C’Est Comme Ca). Abbiamo poi obliqui riferimenti alla guerra in Ucraina in The News e frasi quasi da film horror (“Only I know where all the bodies are buried… Thought by now I’d find ’em just a little less scary”, Thick Skull).

In generale, “This Is Why” conferma tutto il talento dei Paramore, che non per caso sono la band di maggior successo e più longeva della mandata dei primi anni ’00 della scena emo americana (My Chemical Romance e Fall Out Boy tra gli altri esponenti). Non è un CD destinato a cambiare la storia della musica, ma i suoi 32 minuti di durata passano serenamente e ci fanno ritenere che ci sia ancora benzina nel serbatoio nella band capitanata da Hayley Williams.

Voto finale: 7,5.

Lil Yachty, “Let’s Start Here.”

Let's Start Here

Il nuovo lavoro del rapper americano è una radicale reinvenzione: Lil Yachty, finora parte del movimento trap, ha prodotto con “Let’s Start Here.” un CD puramente psichedelico, che lo avvicina ai Tame Impala e a Tyler, The Creator come sound. I risultati? Non perfetti, ma va elogiato il coraggio di un’artista di successo che all’improvviso si cimenta con una musica molto diversa dal suo passato.

Lil Yachty era diventato simbolo, con Lil Uzi Vert e Playboy Carti, di una trap diversa da quella dei veterani come Future e Gucci Mane, meno incentrata sul classico binomio soldi-donne e maggiormente sulla sperimentazione. Tuttavia, “Let’s Start Here.” è un’ulteriore svolta in una carriera davvero bizzarra: pezzi come the BLACK seminole e running out of time sono davvero riusciti. Altri episodi, come :(failure(: e sAy sOMETHINg, sono invece fin troppo tirati.

In generale, come dicevamo, Lil Yachty sembra avere imboccato un percorso di carriera interessante: nessuno prima di “Let’s Start Here.” avrebbe mai detto che il Nostro avrebbe pubblicato un più che discreto CD di pop-rock psichedelico. È molto probabile che non abbiamo ancora visto il meglio di Lil Yachty: non perdiamolo di vista, potrebbe regalare molte soddisfazioni.

Voto finale: 7.

Gli album più attesi del 2023

Non abbiamo fatto in tempo a stilare le liste dei migliori album del 2022 che è già ora di fare una carrellata dei CD più attesi per l’anno che verrà! Ma ormai lo sapete: ad A-Rock la passione per la nuova musica non viene mai meno, perciò vediamo un po’, per ciascun genere, quali sono i lavori più attesi da pubblico e critica.

Per quanto riguarda A-Rock, abbiamo grandi attese per quanto riguarda i nuovi CD di Gorillaz e Beyoncé: se i primi hanno già annunciato che pubblicheranno “Cracker Island” il prossimo 24 febbraio, Queen Bey ha già dato alle stampe la prima parte della trilogia che ha pianificato, “RENAISSANCE”, nel 2022 ed ha praticamente monopolizzato le liste dei migliori album dell’anno della critica specializzata. Inutile dire che il secondo volume è altrettanto atteso.

Spostandoci sul rock, l’anno che sta per finire ha visto moltissime band attese al varco pubblicare lavori rilevanti. Il 2023 potrebbe vedere il ritorno dei The Cure, con l’attesissimo “Songs Of A Lost World”, così come di PJ Harvey, che non pubblica una raccolta di inediti dal lontano 2016. Non tralasciamo poi i Queens Of The Stone Age, i The National e i Paramore: soprattutto questi ultimi ci hanno incuriosito, con singoli di lancio davvero duri rispetto alla loro estetica precedente. Infine, vedremo se gli Squid e gli shame si confermeranno, i primi dopo l’ottimo esordio “Bright Green Field”, i secondi dopo “Drunk Tank Pink”, entrambi del 2021.

Il pop invece, oltre alla già citata Beyoncé, vedrà altri artisti molto rilevanti pubblicare CD molto attesi: Dua Lipa, dopo il clamoroso successo di “Future Nostalgia”, pubblicato in pieno lockdown, dovrà rafforzare il proprio status di prossima regina del pop. Lana Del Rey, invece, proverà a farsi per l’ennesima volta portavoce di quel pop sofisticato che l’ha resa una star planetaria. Da non trascurare poi Caroline Polachek, la quale sta lanciando singoli da “Desire, I Want To Turn Into You” ormai da più di due anni. Chissà poi se Grimes pubblicherà “Book 1”, che già era atteso per il 2022. Jessie Ware, dal canto suo, deve provare a ripetere l’ottima forma sfoderata in “What’s Your Pleasure?”, mentre Janelle Monáe dovrà provare a non intaccare una discografia al momento praticamente impeccabile.

Nel mondo hip hop, pare proprio che JAY-Z pubblicherà il seguito di “4:44” del 2017. Anche i Death Grips sembrano sul punto di dare sfogo ai loro impulsi più sperimentali, mentre A$AP Rocky deve riscattare un periodo artisticamente non roseo, ma caratterizzato dalla nuova paternità. Sembra poi che, finalmente, Travis Scott darà alle stampe il seguito del mega successo del 2018 “Astroworld”, intitolato al momento “Utopia”. Che dire poi di Danny Brown, che doveva pubblicare “Quaranta” nel 2022? Anche da lui si aspettano conferme importanti. Infine, pur essendo difficilmente catalogabile solamente come rapper, Thundercat proverà a replicare quella fusione di generi che l’ha portato ad essere rispettato da pubblico e critica.

Provando a dare un’occhiata all’elettronica, il 2023 dovrebbe vedere il ritorno degli M83: vedremo se la band di origine francese riuscirà a tornare ai livelli di “Hurry Up, We’re Dreaming” del 2011. Anche Fever Ray, ex membro dei The Knife, pubblicherà un nuovo CD, erede di “Plunge” del 2017. Dovrebbero poi trovare spazio i nuovi lavori dei 100 gecs e di Oneohtrix Point Never. Menzione, infine, sul versante R&B dell’elettronica per Kelela, per i Depeche Mode nella parte più rock e per gli MGMT in quella più psichedelica.

Insomma, il 2023 sembra proprio poter essere un anno di conferme e, chissà, nuove scoperte. A-Rock offrirà come sempre, al meglio delle proprie possibilità, un’ampia copertura sulle nuove pubblicazioni. Stay tuned!

I 50 migliori album del 2022 (25-1)

Abbiamo visto che la prima parte dei 50 migliori CD del 2022 contiene nomi di spicco come Beyoncé, Taylor Swift e Florence + The Machine. Ora che siamo giunti alla parte più interessante della top 50, la domanda sorge spontanea: chi sarà a trionfare come album più riuscito dell’anno? Buona lettura!

25) The Weeknd, “Dawn FM”

(POP)

Il quinto album di The Weeknd segue l’acclamatissimo “After Hours” del 2020, uno dei CD di maggior successo degli ultimi anni, insieme forse solo a “Future Nostalgia” di Dua Lipa (2020 anch’esso). La missione era molto difficile, ma Abel Tesfaye riesce con successo a bissare il predecessore di “Dawn FM”, grazie a un innato talento per il pop e alcune collaborazioni di spessore.

Partiamo proprio dai collaboratori: affiancarsi a Quincy Jones, Tyler, The Creator e Lil Wayne, tra gli altri, non è cosa comune, anche per artisti affermati come The Weeknd. Avere poi la produzione di Daniel Lopatin (Oneohtrix Point Never) e Max Martin consente una flessibilità tra ritmi pop e momenti sperimentali invidiabile, come nei momenti migliori di “After Hours”. Forse questo disco non conterrà brani pop perfetti come Blinding Lights e Save Your Tears, ma è comunque un prodotto di ottima fattura.

A narrare la storia alla base del lavoro è niente di meno che Jim Carrey, il celebre attore hollywoodiano e amico del Nostro: sono i suoi intermezzi a rendere l’arco narrativo del disco coerente, malgrado qualche pezzo di troppo (Every Angel Is Terrifying). I brani migliori sono Take My Breath, qui nella versione allungata, e Less Than Zero, che pare ispirato dai The War On Drugs. Da non sottovalutare poi Out Of Time, mentre sotto la media è I Heard You’re Married, malgrado la presenza di Lil Wayne.

Il mondo di “Dawn FM” è decisamente più dark, almeno in apparenza, rispetto ad “After Hours”: già dalla copertina, in cui vediamo un Abel invecchiato e con sguardo perso nel vuoto, abbiamo una sensazione di malessere interiore trasmessa dell’artista canadese. Sentimento rafforzato dalle prime parole pronunciate dal DJ Jim Carrey in apertura: “You’ve been in the dark for way too long, it’s time to walk into the light… We’ll be there to hold your hand and guide you through this painless transition” (Dawn FM). Altrove emerge invece la figura abituale di The Weeknd, quella del conquistatore seriale di belle ragazze, dalle quali emergono infiniti problemi: “Everytime you try to fix me, I know you’ll never find that missing piece” (Sacrifice), “The only thing I understand is zero sum of tenderness” (Gasoline) e “You don’t wanna have sex as friends no more” (Best Friends) sono chiari esempi.

In conclusione, il cantante misterioso che nel lontano 2011 aveva rivoluzionato la scena R&B è definitivamente mutato in una popstar fatta e finita, con risultati strabilianti. “Dawn FM” è stato, senza dubbio, il primo grande album pop del 2022.

24) Yeule, “Glitch Princess”

(ELETTRONICA)

Il secondo album dell’artista nata a Singapore come Natasha Yelin Chang, successivamente trasferitasi a Londra e diventata non-binaria col nome di Nat Cmiel, è un ottimo CD che si inserisce sulla strada già aperta da artisti visionari come la compianta SOPHIE e Arca. Nulla di radicale, quindi, ma senza dubbio un prodotto art pop di qualità.

Yeule è una figura complessa: da un lato abbiamo un artista capace di scrivere brani pop accattivanti come Don’t Be So Hard On Your Own Beauty, dall’altro lo sperimentatore che inizia il lavoro con l’ostica My Name Is Nat Cmiel. Questa ambivalenza permea tutto il CD, che alterna momenti musicalmente più euforici (Too Dead Inside) ad altri più difficili (Fragments), spesso su testi altrettanto strani.

In Friendly Machine, ad esempio, Yeule proclama: “Always want but never need, I don’t have an identity I can feed”; invece Don’t Be So Hard On Your Own Beauty apre un varco di luce: “the sullen look on your face tells me you see something in me more pure than this dirty”. Tuttavia, l’ammissione più candida avviene nell’apertura del lavoro, in cui Yeule ci appare non come un cyborg, bensì una persona come tutti noi: “I like pretty textures in sound, I like the way some music makes me feel, I like making up my own worlds” (My Name Is Nat Cmiel).

In conclusione, “Glitch Princess” è un secondo album che alza decisamente il livello rispetto all’esordio “Serotonin II” (2019), ancora acerbo. Il pop futurista di Yeule a tratti è irresistibile; quando imparerà a mettere da parte gli sperimentalismi più fini a sé stessi (si senta Fragments a tal riguardo), avremo di fronte un vero grande progetto. Ma già così abbiamo un talento fuori dal comune.

23) Angel Olsen, “Big Time”

(COUNTRY – ROCK)

Il nuovo album di Angel Olsen, il sesto della cantautrice americana, nasce dalla tragedia e da fatti strettamente personali che hanno sconvolto la sua vita. Nel corso del 2021, Angel ha confessato la sua omosessualità, prima agli amici, poi ai genitori e infine al pubblico. Poco dopo, il padre è deceduto e poche settimane dopo, tragicamente, anche sua madre è morta. Il periodo davvero difficile vissuto recentemente da Olsen trova ovviamente spazio in “Big Time”, ma i ritmi tendenzialmente country e sereni aiutano il CD, tanto da non farlo risultare eccessivamente pesante.

L’ultimo LP vero e proprio a firma Angel Olsen è “All Mirrors” del 2019, contando che “Whole New Mess” (2020) era una sorta di remix del precedente lavoro. Inoltre, Olsen nel 2021 aveva pubblicato la breve raccolta di cover “Aisles”. “Big Time” si distacca però da tutti questi lavori: più cantautorale, meno barocco, più country e meno ispirato agli anni ’80. In generale, possiamo dire che la nuova direzione artistica intrapresa dalla Nostra è convincente in molte parti del presente lavoro.

L’inizio del CD è molto promettente: All The Good Times e la title track sono tra i migliori brani del disco. Dream Thing invece, con le sue cadenze dream pop, quasi rievoca Intern, uno dei pezzi migliori di “My Woman” (2016). Altrove abbiamo pezzi più raccolti (All The Flowers) così come rimandi al rock à la Lucy Dacus (Right Now); in generale i dieci brani del CD sono coesi e fanno di “Big Time” un’altra ottima aggiunta ad una discografia davvero di spessore. Solo Ghost On è leggermente sotto la media.

Liricamente, come anticipato, “Big Time” tocca molti dei temi che hanno reso la vita di Angel Olsen davvero difficile negli ultimi tempi. In Ghost On pare rivolgersi a sé stessa: “I don’t know if you can take such a good thing coming to you, I don’t know if you can love someone stronger than you’re used to”. Il tema di una relazione finita male compare anche in All The Good Times: “So long, farewell, this is the end” canta infatti Angel. Ma è This Is How It Works che contiene i versi più sinceri: “I’m barely hanging on… It’s a hard time again”.

In generale, come già accennato, “Big Time” continua la striscia di ottimi LP a firma Angel Olsen, in una produzione sempre più variegata e brillante. Non sarà forse il suo miglior lavoro, ma per molti sarebbe un highlight di un’intera carriera.

22) Danger Mouse & Black Thought, “Cheat Codes”

(HIP HOP)

Il primo LP di coppia fra Danger Mouse, produttore di primo piano, in passato collaboratore, tra gli altri, di Damon Albarn e The Black Keys, e Black Thought, membro del gruppo hip hop The Roots, è una gioia per i fan del rap di tendenza East Coast. Le basi sono infatti nostalgiche al punto giusto e gli ospiti, dai veterani come Raekwon e il compianto MF DOOM (presente con un verso postumo) ai più giovani Michael Kiwanuka e A$AP Rocky, senza tralasciare ovviamente i Run The Jewels, aggiungono ulteriore spessore ad un lavoro di ottima caratura.

I due avevano già provato in passato a trovare spazio nelle loro agende per una collaborazione a pieno titolo, col titolo provvisorio di “Dangerous Thoughts”; tuttavia, il progetto era stato messo in pausa per i successivi mesi, che sono poi diventati anni. Solo quest’anno il CD ha visto la luce, col titolo di “Cheat Codes”: i risultati, come già accennato, sono buoni e fanno del lavoro uno dei migliori dischi rap del 2022.

Le prime tracce che colpiscono l’ascoltatore, dopo l’inizio discreto ma convenzionale con Sometimes e la title track, sono The Darkest Part, con grande verso di Raekwon, e Because, la quale vanta ben tre featuring: Joey Bada$$, Russ e Dylan Cartlidge. Altre belle canzoni sono Aquamarine e Strangers, mentre sotto la media è Close To Famous. In generale, le composizioni scorrono bene e creano un insieme organico e coeso, che non risulta mai noioso.

In conclusione, “Cheat Codes” conferma il talento di entrambi i suoi principali autori e la potenza di una collaborazione ben piazzata: non stiamo parlando di un LP capace di reinventare la musica contemporanea, ma Danger Mouse e Black Thought hanno composto un CD di qualità, trovando meritatamente posto nella lista dei migliori lavori dell’anno secondo A-Rock.

21) Mitski, “Laurel Hell”

(POP – ROCK)

Il sesto lavoro della talentuosa cantautrice giapponese-americana è un buon lavoro pop che si rifà agli anni ’80. Su un tappeto di synth e con una batteria tonante sempre in primo piano, Mitski racconta i suoi tormenti e la volontà di trovare finalmente pace in un mondo sempre più travolgente e rapace.

Non tutto però suona allo stesso modo nel CD: abbiamo pezzi più trascinanti (The Only Heartbreaker, Love Me More, due highlight del disco) ed altri quasi ambient (I Guess, Everyone), che rendono il ritmo complessivo di “Laurel Hell” un po’ incoerente, ma mai scontato. Se musicalmente “Laurel Hell” può suonare a tratti euforico, però, Mitski si rivela un’anima tormentata.

Dopo il grande successo di “Be The Cowboy” (2018) e il lungo tour che ne seguì, Mitski aveva abbandonato qualsiasi altro interesse e le amicizie precedenti, circostanza che l’aveva fatta sentire vuota e le aveva fatto decidere di abbandonare la musica una volta per tutte. Tuttavia, il suo contratto con l’etichetta discografica Dead Oceans prevedeva la pubblicazione di un ultimo CD, quindi “Laurel Hell” ha visto la luce. Inoltre, Mitski ha deciso di imbarcarsi in un tour al fianco della superstar Harry Styles; quindi, il suo impegno verso il mondo della musica pare tutto meno che esaurito.

Liricamente, abbiamo vari frammenti che ci fanno intravedere un’anima sensibile e fragile: “I always thought the choice was mine… And I was right, but I just chose wrong” canta Mitski in Working For The Knife. La sensazione di impotenza che a volte prende tutti noi quando vogliamo ribellarci ad un ordine di cose immodificabile è evidente in Everyone: “Sometimes I think I am free… Until I find I’m back in line again”. I versi più commoventi sono però contenuti in That’s Our Lamp, che chiude il lavoro: “You say you love me, I believe you do. But I walk down and up and down and up and down this street, ’cause you just don’t like me, not like you used to”.

Vedremo, fatto sta che Mitski si conferma talentuosa come poche altre figure nel panorama contemporaneo: passata dall’indie rock delle origini, per poi arrivare ad un pop danzereccio e gioioso in “Be The Cowboy”, questo “Laurel Hell” suona come un riassunto delle puntate precedenti, con un’apertura non trascurabile verso il pop più raccolto. Nulla di trascendentale, ma un’ulteriore dimostrazione che, quando nella musica butti tutta te stessa, i risultati sanno essere davvero notevoli.

20) Jack White, “Fear Of The Dawn” / “Entering Heaven Alive”

(ROCK)

“Fear Of The Dawn”, il primo dei due pubblicati nel 2022, riprende là dove ci eravamo lasciati quattro anni fa con “Boarding House Reach”: rock sperimentale, davvero strano a tratti; copertina impostata sui tre colori bianco-nero-blu; zero coerenza tra una canzone e l’altra della tracklist. Non siamo di fronte ad un LP perfetto, ma l’ex leader dei White Stripes pare davvero divertirsi; e noi con lui.

Un tempo considerato il più “purista” tra i rocker emersi a cavallo tra XX e XXI secolo, White negli ultimi anni ha in realtà decisamente ampliato il proprio ventaglio di soluzioni: se il primo disco solista “Blunderbuss” (2012) era decisamente inserito nel blues-rock che aveva fatto la fortuna di Jack in passato, già in “Lazaretto” (2014) si erano cominciate ad intravedere delle canzoni innovative. “Boarding House Reach”, da questo punto di vista, è stato il big bang: molti fan della prima ora lo schifano, mentre i più aperti alle novità ne apprezzano la radicalità, pur con qualche errore (ricordiamo la debole Connected By Love).

“Fear Of The Dawn” si apre con due dei pezzi migliori della produzione recente di Jack White: Taking Me Back e la title track sono potentissime, quasi Black Sabbath nei momenti più duri. La chitarra del rocker di Detroit strilla come ai bei tempi e la voce è a fuoco: insomma, due ottime canzoni. Altrove abbiamo esperimenti più o meno riusciti, come Hi-De-Ho (con tanto di verso rap di Q-Tip degli A Tribe Called Quest), la sghemba Into The Twilight ed Eosophobia, addirittura divisa in due suite. Invece in What’s The Trick? ritorna il White prepotente delle prime due tracce.

In conclusione, tolto l’evitabile intermezzo Dust, “Fear Of The Dawn” è il miglior CD a firma Jack White dal lontano “Blunderbuss”: avventuroso, ambizioso, a volte troppo ricercato ma mai prevedibile o monotono. Se “Boarding House Reach” poteva sembrare un divertissement una tantum, “Fear Of The Dawn” ribadisce che White è ormai un rocker a tutto tondo, non più imprigionabile nel ruolo del tradizionalista del blues e del rock.

Il secondo album del 2022 dell’ex The White Stripes è un deciso cambiamento di rotta rispetto al precedente “Fear Of The Dawn”. Laddove quest’ultimo era un album rock sperimentale, furioso a tratti, “Entering Heaven Alive” è puro cantautorato: potremmo definirlo “la faccia buona” di White. La preferenza dell’ascoltatore per uno o l’altro dipende probabilmente dai propri gusti personali: i due CD, infatti, sono entrambi ben fatti e compongono una prova innegabile del grande talento di Jack White, unito a una versatilità non comune.

La cosa che colpisce, prima ancora delle canzoni, è la copertina di “Entering Heaven Alive”: scomparse le tracce di azzurro che trovavano spazio nei precedenti dischi solisti del Nostro, abbiamo una semplice immagine in bianco e nero. Per uno attento all’estetica come lui, questo è un cambiamento rilevante: il dubbio era cosa aspettarsi dalle tracce di “Entering Heaven Alive”.

La risposta è che Jack White è un compositore di grande talento, capace di incidere nello stesso anno brani rock robusti come Taking Me Back (riproposta in chiave acustica in questo lavoro) e Fear Of The Dawn così come deliziosi pezzi folk come A Tip From You To Me e All Along The Way. La prima parte del CD contiene le canzoni migliori: parliamo delle già citate A Tip From You To Me e All Along The Way, ma abbiamo anche If I Die Tomorrow, che tiene alto il livello nel finale di LP. Invece inferiore alle altre Queen Of The Bees, inspiegabilmente scelta come singolo di lancio.

In conclusione, “Entering Heaven Alive” chiude ottimamente un 2022 da incorniciare per Jack White. Siamo di fronte al suo miglior periodo, musicalmente parlando, più fertile anche degli esordi solisti del 2012 (“Blunderbuss” resta peraltro un buonissimo lavoro). Forse non siamo ai livelli della doppietta “White Blood Cells”-“Elephant”, incisi a cavallo tra 2001 e 2003 con Meg White, ma ci siamo dannatamente vicini.

19) Special Interest, “Endure”

(PUNK)

Il terzo CD del gruppo statunitense costruisce su quanto di buono c’era nel precedente “The Passion Of” (2020), oggetto anche di un profilo Rising sul nostro blog: un punk energico, inframmezzato da melodie quasi dance e disco. Questa volta però c’è più attenzione al post-punk stile Joy Division e Interpol, con una durata complessiva (44 minuti) che rende il lavoro più complesso rispetto a “The Passion Of” (29 minuti), ma anche più completo. I risultati sono generalmente equivalenti: siamo di fronte ad un altro ottimo LP in una produzione sempre più interessante.

Alli Logout e compagni si confermano quindi band imprescindibile per la scena punk americana grazie a quanto li aveva resi solidi già in passato: base ritmica serrata, voce spesso irresistibile, messaggi potenti trasmessi attraverso liriche sempre dirette. Prova ne siano i seguenti versi: “Liberal erasure of militant uprising is a tool of corporate interest and a failure of imagination” e “We are not concerned with peace. Peace is not of our concern” (entrambi da Concerning Peace); “If you don’t like it you can fuck right off” e “The end of the world is just a destination, I had to grow to love, yes and now I know I’m not unworthy of love” (LA Blues).

La storia più bella e tragica è però contenuta in (Herman’s) House: il brano prende spunto dalla storia vera di Herman Wallace, un membro delle Pantere Nere che ha trascorso ingiustamente 41 anni in prigione per un reato che non ha commesso. Una volta uscito, nel 2013, è morto di cancro tre giorni dopo. Ecco quindi spiegato il seguente, tragico verso: “We’ll all be Basquiats for five minutes or Hermans for life”.

I bei pezzi abbondano in “Endure”: dalla danzereccia Midnight Legend a Concerning Peace, passando per (Herman’s) House, il CD è ricco di manifesti punk potenti. Deludono in parte solo Foul e il fin troppo breve Interlude, ma i risultati complessivi restano buonissimi.

In conclusione, “Endure” riporta gli Special Interest meritatamente al centro della scena punk statunitense. I loro componimenti, in sottile equilibrio tra elettronica e rock duro, li rendono un unicum: Alli Logout, inoltre, si conferma presenza carismatica e rende ancora più speciale il gruppo. Non vediamo l’ora di vedere la loro prossima incarnazione.

18) Nilüfer Yanya, “PAINLESS”

(ROCK)

“Miss Universe”, l’album d’esordio del 2019 di Nilüfer Yanya, era indubbiamente un buon disco e si era guadagnato uno spazio nella rubrica Rising di A-Rock; tuttavia, non era ancora la dimostrazione piena del talento della cantautrice inglese. “PAINLESS” invece è un CD più realizzato e coeso, che è uno dei migliori dischi indie rock del 2022.

I 46 minuti di “PAINLESS” scorrono benissimo, tra rimandi ai Radiohead (stabilise, midnight sun) e ad Alanis Morissette (the dealer). Soprattutto nella prima parte, il lavoro è davvero ben costruito; invece pezzi come company e anotherlife sono i più deboli del lotto e fanno finire il CD su un livello compositivo inferiore rispetto alla prima metà, ma complessivamente siamo di fronte ad un ottimo secondo LP.

I testi poi sono un altro tratto interessante del lavoro: Nilüfer Yanya è infatti evocativa, ma mai troppo diretta. Di certo c’è solo il suo malessere: esemplari i versi contenuti in trouble (“Troubled don’t count the ways I’m broken, your troubles won’t count, not once we’ve spoken”) e in shameless (“Spit me out here in the sunlight … Watch me burn, night and day”). Il verso più drammatico è però questo: “Silent leaves, I walked in your forest, but there’s no roots. I am not sure I got this”, in try.

“PAINLESS” è evidentemente un titolo ironico, amaro: tanto più in un mondo tormentato come quello odierno, diviso tra l’interminabile pandemia e una guerra devastante alle porte dell’Europa. Pertanto, pur non essendo certo un disco “difficile”, “PAINLESS” è più profondo della media dei CD indie rock degli ultimi anni, sia musicalmente che liricamente, e fa di Nilüfer Yanya un nome da tenere d’occhio. Se “Miss Universe” poteva apparire agli scettici come un abbaglio, questo LP non passerà inosservato.

17) Everything Everything, “Raw Data Feel”

(POP – ELETTRONICA)

Il sesto lavoro del gruppo inglese porta con sé alcune novità: la più importante, quasi rivoluzionaria, è che i testi di “Raw Data Feel” sono stati composti da un software di intelligenza artificiale, che il leader del gruppo Jonathan Higgs ha eletto “quinto membro degli Everything Everything”. Non va tralasciato l’aspetto puramente musicale, però: questo è il miglior CD degli inglesi dai tempi di “Get To Heaven” del 2015.

La musica di “Raw Data Feel” suona infatti fresca, gioiosa: singoli riusciti come I Want A Love Like This e l’indie rock irresistibile di Jennifer sono highlights assoluti in una carriera già piena di successi. Il lavoro funziona meno nei brani più convenzionali: Pizza Boy, non fosse per il testo assurdamente divertente, è dimenticabile. Stessa cosa vale per Shark Week e HEX. Buona invece la più lenta Leviathan, così come la dolce Kevin’s Car e la danzereccia Teletype.

La curiosità, oltre che per le 14 tracce di “Raw Data Feel”, era forte anche per i testi generati dal tool di intelligenza artificiale creato da Higgs: dopo averlo “istruito” con testi presi tanto dai social quanto dalla filosofia confuciana, il sistema ha fatto in generale un buon lavoro. In alcuni casi abbiamo versi divertenti, come “Why don’t you listen to your momma? She’s old” (I Want A Love Like This), oppure profondi (“You’re in love with the future, I don’t know why”, My Computer).

In conclusione, “Raw Data Feel” è un ottimo LP da parte di un gruppo in continua evoluzione: il precedente “RE-ANIMATOR” (2020) era il loro CD più prevedibile e gli Everything Everything sembravano aver virato verso atmosfere più indie rock. Invece questo disco apre la porta a ritmi dance e ritorna al pop che li ha resi dei paladini della scena alternativa. Chapeau.

16) Beach House, “Once Twice Melody”

(POP)

L’ottavo LP del duo originario di Baltimora è un altro capolavoro in una carriera costellata di grandi CD. Diviso in quattro capitoli, articolato in 18 canzoni per 84 minuti totali, “Once Twice Melody” raccoglie tutto quanto fatto in passato dai Beach House, dalle cavalcate quasi psichedeliche (Superstar) alle ballate che riportano alle origini del gruppo (Sunset), passando per pezzi molto cinematografici (New Romance) e grandi odi dream pop (Masquerade). Non tutto funziona a meraviglia, ma quando lo fa siamo di fronte ad un lavoro imperdibile.

Interessante (e riuscita) l’idea dei Beach House di pubblicare “Once Twice Melody” in quattro diverse uscite tra novembre 2021 e febbraio 2022, dando modo al pubblico di digerire le numerose sfaccettature del lavoro. In effetti, come già accennato, la durata rappresenta il principale ostacolo ad una fruizione perfetta del CD: tuttavia, probabilmente il duo formato da Victoria Legrand e Alex Scally ha voluto fare piazza pulita dei propri archivi. Chissà che le future incarnazioni dei Beach House non divergano molto da quanto sentito negli ultimi anni.

In generale, non c’è una vera e propria narrativa alla base di ogni capitolo: i temi dell’amore, del sogno, dei ricordi e del rapporto con ciò che ci circonda, comprese le stelle, sono disseminati un po’ ovunque. Come sempre coi Beach House, è più la sensazione provocata dalla musica che le liriche ad emozionare: in pezzi come la superlativa Superstar e Masquerade lo scopo è raggiunto magnificamente. Col tempo, è quasi naturale che alcune canzoni ricalchino altre già sentite in precedenza (ESP, Illusion Of Forever), ma in generale la qualità media del lavoro è squisita.

Il tema delle stelle ricorre spesso nel lavoro: in Superstar Legrand canta “The stars were there in our eyes”, mentre Pink Funeral contiene un verso quasi identico: “The painted stars, they fill our eyes”. Altrove immagini tragiche si mescolano con altre ironiche: “Something somebody told me, think the plane is going down. You can’t take it with you, so let me buy you the next round” (The Bells), laddove New Romance contiene forse il verso più bello: “You’re somebody else, somebody new… ‘fuck it’ you said, ‘it’s beginning to look like the end’”.

In conclusione, “Once Twice Melody” è un altro grande lavoro in una discografia ormai leggendaria. Non è un caso che i Beach House incarnino l’idea di dream pop del XXI secolo: se in passato li abbiamo visti sia nella loro versione più semplice (l’eponimo esordio “Beach House” del 2006) che in quella più muscolare (“7” del 2018), passando per dischi magnifici come “Teen Dream” del 2010 e “Bloom” del 2012, questo LP è una summa di tutto quanto. Forse non è il loro migliore lavoro, ma con “Once Twice Melody” Legrand e Scally hanno scritto altre grandi pagine di dream pop.

15) SOUL GLO, “Diaspora Problems”

(PUNK)

Se l’anno passato i Turnstile avevano fatto intravedere il futuro dell’hardcore punk nel suo versante più “dream punk” con il magnifico “GLOW ON”, il complesso noto come SOUL GLO ha invece perfezionato una formula altrettanto radicale ed innovativa, ma sul versante opposto. Punk, hip hop sperimentale, metal, noise… “Diaspora Problems” è un CD lontano dal mainstream, ma poco o nulla del passato suona come lui.

Tecnicamente questo sarebbe il quarto lavoro a firma SOUL GLO; tuttavia, i tre precedenti sono andati pressoché perduti e quindi, a livello di impatto col pubblico, questo per molti sarà il primo ascolto del gruppo americano. Oltre al sound abrasivo, a livello lirico Pierce Jordan e compagni affrontano temi molto attuali e sentiti, specialmente dalle persone di colore: il singolo Jump!! (Or Get Jumped!!!)((by the future)) nomina i defunti Juice WRLD e Pop Smoke per mettere in evidenza la condizione di perenne incertezza che avvolge persone nere di successo, tanto da chiedersi “Would you be surprised if I died next week?”. Nell’iniziale Gold Chain Punk (whogonbeatmyass?) le prime parole sono “Can I live?”, che diventano quasi un mantra nel corso del brano. Altrove abbiamo infine veri e propri proclami politici: “It’s been ‘fuck right wing’ off the rip, but still liberals are more dangerous” è il più eloquente (John J).

I pezzi migliori sono Gold Chain Punk (whogonbeatmyass?) e la devastante Spiritual Level Of Gang Shit, che chiude stupendamente il lavoro. Inferiore alla media, altissima, del CD solamente Coming Correct Is Cheaper. Ma in generale va detto che il mix di suoni che formano “Diaspora Problems” richiede più ascolti per essere completamente assimilato: è come sentire i Death Grips scrivere canzoni punk ispirandosi a Sex Pistols e Black Flag. Basti ascoltare Driponomics a tal riguardo.

“Diaspora Problems” è quindi un LP complesso, ma i 39 minuti che compongono la tracklist non suonano mai monotoni. Se la rabbia espressa da Pierce Jordan e co. può a volte suonare eccessiva, pensiamo al mondo in cui viviamo attualmente, con i suoi mille problemi, e improvvisamente anche le parti più dure di “Diaspora Problems” assumono un senso.

14) Kendrick Lamar, “Mr. Morale & The Big Steppers”

(HIP HOP)

Quando uno dei maggiori rapper degli ultimi dieci anni, se non forse il migliore di tutti, pubblica un nuovo lavoro, è normale che tutto ruoti attorno a lui. Basti dire che quello stesso venerdì erano stati pubblicati i nuovi CD di artisti come Florence + The Machine, The Black Keys e The Smile… ma tutti o quasi ci siamo orientati da K-Dot.

Cinque anni erano trascorsi dall’ultimo lavoro di Kendrick Lamar: “DAMN.” usciva infatti nel 2017 e consegnava al Nostro, oltre che il primo posto nelle classifiche di vendita e in quelle di qualità di numerose riviste specializzate, nientemeno che il Premio Pulitzer, prima volta di sempre per un rapper! È chiaro che stiamo parlando di un artista speciale e “Mr. Morale & The Big Steppers” certamente non intacca l’eredità che Kendrick Lamar lascerà ai posteri… ma è davvero il capolavoro di cui molti parlano?

I 73 minuti di durata fanno pensare ad un doppio album molto denso e di difficile assimilazione, circostanze entrambe confermate, malgrado vi siano momenti più gradevoli musicalmente, si senta la trap di N95 ad esempio. Va ricordato poi che “To Pimp A Butterfly” (2015), il capolavoro indiscusso ad oggi di Lamar, durava qualche minuto in più ma è catalogato come un unico CD… in questo caso, peraltro, la divisione è presente già nel titolo, tanto che viene da chiedersi: ma chi è questo Mr. Morale? È un dubbio che non viene mai chiarito definitivamente nel corso del lavoro: uno psicoterapeuta, la compagna di Kendrick, lui stesso… le interpretazioni si sprecano, ma di nessuna possiamo essere certi. Una cosa è però sicura: se in passato Kendrick Lamar è stato elogiato per la sua incredibile capacità di narrare, quasi come se fossimo in un film, la vita nella periferia di Compton (“good kid, m.A.A.d. city” del 2012) e il razzismo prevalente in certi settori d’America (“To Pimp A Butterfly”), adesso l’attenzione è tutta per sé stesso.

Aiutato da ospiti di spessore, tra cui menzioniamo Sampha, il controverso Kodak Black e Ghostface Killah, Lamar scava come mai in precedenza nei suoi demoni, uscendosene a volte con opinioni forti per non dire “rischiose”: non ci scordiamo che siamo nel tempo del #MeToo e dell’inclusione, pertanto alcune frasi di Auntie Diaries, in cui si narra la storia di due suoi parenti omosessuali e alle prese con la transizione verso l’altro sesso, oppure della durissima We Cry Together potrebbero essere valutate in maniera diversa a seconda dell’audience. In generale, tuttavia, la volontà di mettersi a nudo in modo così esplicito rende “Mr. Morale & The Big Steppers” un CD irrinunciabile per i fan del rapper californiano.

Musicalmente, il disco è molto complesso, variegato: passiamo dalla ritmica stramba e fuori sincro dell’iniziale United In Grief alla trap di N95, per poi toccare l’R&B in Father Time e il pop-rap in Rich Spirit. Il brano che svetta su tutti è la delicata e straziante Mother I Sober, che conta la collaborazione di Beth Gibbons, cantante dei Portishead: il pezzo, dedicato alla madre di Lamar, racconta l’abuso sessuale da lei subito quando il Nostro era ancora un ragazzo e la sua disperata reazione. Evoca inoltre l’immagine della nonna di Kendrick, che lui si immagina così: “My mother’s mother followed me for years in her afterlife, starin’ at me on back of some buses, I wake up at night”. Il pezzo regge praticamente da solo la parte finale del CD e lancia magnificamente Mirror, che chiude il lavoro.

Con il supporto di produttori di spessore, tra cui annoveriamo Pharrell Williams, The Alchemist e Baby Keem, Kendrick ha pubblicato probabilmente il più complesso LP della sua carriera. Non sempre il livello è pari a quanto anticipato da The Heart Pt. 5, che aveva generato aspettative davvero altissime. Tuttavia, Kendrick Lamar ha creato un altro capitolo imperdibile in una carriera ormai leggendaria. Se parliamo di “GOAT” (Greatest Of All Time) in ambito rap, il suo nome non può essere escluso.

13) Soccer Mommy, “Sometimes, Forever”

(ROCK)

Il terzo album della talentuosa Sophie Allison, in arte Soccer Mommy, introduce delle gustose novità nel suo sound, grazie anche alla produzione di Daniel Lopatin (Oneohtrix Point Never). Il risultato è un ottimo CD indie rock, con occasionali esperimenti che guardano al trip hop (Unholy Affliction) e allo shoegaze (Don’t Ask Me).

Della “new wave” di autrici che stanno rivoluzionando il mondo indie (basti citare Phoebe Bridgers, Lucy Dacus e Julien Baker), Allison è la più grunge: prova ne sia “Clean” (2018), l’album che la fece conoscere al mondo. Invece “color theory” (2020) aveva virato verso atmosfere più soffuse, mantenendo però il candore dei testi che l’hanno resa fin da subito riconoscibile. “Sometimes, Forever” contribuisce, come già detto, ad ampliare ulteriormente la palette sonora di Soccer Mommy: Darkness Forever, ad esempio, difficilmente sarebbe entrata in un suo lavoro precedente.

A proposito di testi, Still contiene alcune delle liriche più toccanti mai scritte da Allison: “I lost myself to a dream I had… But I miss feeling like a person”. Altro verso molto malinconico è “I’m barely a person, mechanically working”, contenuto in Unholy Affliction. Altrove invece emerge l’aspetto più speranzoso dell’animo di Sophie: “Whenever you want me, I’ll be around… I’m a bullet in a shotgun waiting to sound” (Shotgun).

I migliori brani sono l’iniziale Bones, davvero travolgente; il singolo di lancio Shotgun, ottimo pezzo indie rock; e Don’t Ask Me, potente pezzo shoegaze che ricorda i My Bloody Valentine. Invece inferiore alla media Fire In The Driveway. In generale, Sophie Allison conferma quanto di buono si scrive di lei da anni: Soccer Mommy è ormai un progetto caposaldo del mondo indie contemporaneo e “Sometimes, Forever” è uno dei migliori CD rock del 2022.

12) Björk, “Fossora”

(ELETTRONICA – POP – SPERIMENTALE)

Il decimo album dell’artista islandese più nota al mondo continua la sua ricerca del perfetto album art pop. Mescolando temi mondani come il Covid-19 e il lutto passato per la morte della madre Hildur, Björk ha creato un altro CD squisito, sulle tracce dei migliori della sua produzione e un netto progresso rispetto al precedente “Utopia” (2017).

Questa volta l’artista islandese ha privilegiato i bassi e i clarinetti, creando atmosfere accessibili (Ancestress) e allo stesso tempo oscure (Atopos), con momenti di puro sperimentalismo (Mycelia). I risultati sono in generale incredibili: nei suoi momenti più riusciti “Fossora” arriva molto vicino alle vette di “Post” (1995) e “Homogenic” (1997), i due LP più celebrati della Nostra. Prova ne siano Atopos e la title track.

Il tema portante, sia della cover che di molti titoli, sono i funghi. Se “Utopia” era un album che dedicava molto spazio all’amore e all’aria come elemento naturale, “Fossora” (parola inventata da Björk che significa, dal corrispettivo latino maschile, “scavatrice”) è invece dedicato alla terra e scava nei rapporti familiari.

Dicevamo che gli argomenti principali del lavoro sono due: la pandemia e la morte della madre. Björk evoca spesso la figura di quest’ultima, con versi spesso toccanti: “Did you punish us for leaving? Are you sure we hurt you? Was it just not ‘living?’” (Ancestress); “Rejection left a void that is never satisfied, sunk into victimhood… Felt the world owed me love” (Victimhood). Il verso più bello è contenuto nella conclusiva Her Mother’s House: “When a mother wishes to have a house with space for each child, she is only describing the interior of her heart”. A rafforzare il sentimento di famiglia che pervade “Fossora”, Björk canta con la collaborazione, oltre che di serpentwithfeet (Fungal City), dei figli Sindri (Ancestress) e Isadora (Her Mother’s House).

Esclusi i due intermezzi Fagurt Er Í Fjörðum e Mycelia, eccessivamente brevi per lasciare traccia, il CD scorre benissimo, malgrado stiamo parlando di un lavoro per palati fini, amanti dell’elettronica più sperimentale e del pop più raffinato. “Fossora” è un highlight di una carriera già piena di dischi imprescindibili: Björk si conferma nome ormai leggendario.

11) Alvvays, “Blue Rev”

(ROCK)

I canadesi Alvvays mancavano da ben cinque anni dalla scena musicale. “Antisocialites” risale infatti al 2017: il CD pareva lanciarli verso una buona carriera nel mondo indie, con forti influenze shoegaze. Invece poi, tra problemi di furti, alluvioni e la pandemia, la registrazione del seguito “Blue Rev” è slittata fino al 2022, un anno che si sta rivelando sempre più ricco di album imperdibili, in ogni genere.

“Blue Rev” è infatti davvero squisito: The Smiths, R.E.M. e Lush fanno capolino qua e là come influenze, ma gli Alvvays hanno praticamente scritto il manifesto del suono dello shoegaze del 2022. Certo, ci sono tracce maggiormente dream pop (Bored In Bristol) o indie rock (Pomeranian Spinster), ma gli Alvvays hanno un sound tutto loro, accattivante e con picchi davvero notevoli come Pharmacist e Easy On Your Own?. Il replay value è garantito.

Il disco si compone di numerose canzoni, ma generalmente molto brevi, tanto che la durata complessiva arriva ad appena 38 minuti. La prima parte è eccezionale: Pharmacist, Easy On Your Own e After The Earthquake sono infatti una tripletta vincente su tutti i fronti. Abbiamo poi altre perle nascoste, come Velveteen e Belinda Says. Inferiori alla media solamente Pressed e Fourth Figure, ma restano utili nell’economia di “Blue Rev”, capace di alternare momenti più rock ad altri maggiormente intimisti in maniera ottimale.

In conclusione, “Blue Rev” è il capolavoro che chiunque avrebbe augurato agli Alvvays: se l’omonimo esordio “Alvvays” (2014) e “Antisocialites” sembravano buoni ma non ancora completamente centrati, questo LP definisce un nuovo benchmark per lo stile shoegaze. Chapeau.

10) black midi, “Hellfire”

(ROCK – SPERIMENTALE)

Il terzo CD degli inglesi black midi prosegue una carriera a metà tra folle e avanguardista, sulla scia di quel maestro che era Scott Walker: prog rock, noise, country (!!!) e puro sperimentalismo si mescolano in “Hellfire”, con canzoni che spesso cambiano radicalmente nel corso di due minuti o meno. Geordie Greep (chitarra e voce principale), Cameron Picton (basso e seconda voce) e Morgan Simpson (batteria) hanno ormai una maestria incredibile nel performare questi continui cambi di ritmo, tanto da far sembrare “Hellfire” quasi comodo da eseguire rispetto alla durezza di “Schlagenheim” (2019) e alla maggior raffinatezza di “Cavalcade” (2021).

Le dieci tracce del CD sembrano comporre una colonna sonora dell’Inferno: i tre singoli di lancio, da Welcome To Hell a Sugar/Tzu passando per Eat Men Eat, sono durissimi e hanno fatto capire una volta di più che siamo di fronte ad un complesso unico nel suo genere. Non che le altre canzoni in tracklist siano deludenti: azzeccata la scelta di mettere il breve intermezzo Half Time proprio a metà del percorso di “Hellfire”, così come è davvero irreale il country di Still, con Picton prima voce che non sfigura per nulla, pur al cospetto di un genere tanto strano e alieno per i black midi. Indimenticabile poi The Race Is About To Begin, in cui Greep spara frasi al ritmo dell’Eminem più scatenato; e ottima la chiusura di 27 Questions, in cui i black midi immaginano la triste fine dell’attore fallito Freddie Frost, che nella sua ultima opera inscena 27 domande esistenziali prima di darsi fuoco sul palcoscenico.

Liricamente, questa è la traccia che sicuramente resta più impressa. Interessante poi la scelta del gruppo di focalizzarsi su vignette di personaggi “esemplari”, narrate sempre in prima persona da Greep e soci. Ad esempio, Sugar/Tzu immagina un confronto pugilistico del futuro tra due grizzly, in cui uno dei due viene ucciso da un fan impazzito che, a suo dire, voleva accontentare il pubblico portando il sangue sul ring. Abbiamo poi il racconto delle peripezie di un soldato che soffre di stress post-traumatico (Welcome To Hell). Altrove, infine, abbiamo frasi che stroncano la stupidità umana (“Idiots are infinite, thinking men numbered”, The Race Is About To Begin).

Qualcuno può quasi avere la sensazione che gli esperimenti dei black midi siano calcolati: troppo precise queste folli canzoni per essere oneste! In realtà, il trio inglese sembra proprio fiero di continuare ad analizzare l’umanità, associando i loro racconti a qualsiasi sfaccettatura del rock aggradi loro. Saranno degli scienziati pazzi, ma c’è del genio in questa follia.

9) Perfume Genius, “Ugly Season”

(POP – SPERIMENTALE)

Il sesto album del musicista americano è una radicale reinvenzione della sua estetica. L’art pop che contraddistingueva i suoi dischi più rilevanti, da “Put Your Back N 2 It” (2012) a “Set My Heart On Fire Immediately” (2020), lascia il posto ad un intricato mix di musica sperimentale e neoclassica, che porta Perfume Genius su territori ignoti. I risultati tuttavia sono, come al solito, magnifici.

Ascoltare per la prima volta “Ugly Season” può essere un’esperienza catartica, straniante ma allo stesso tempo rilassante: il basso pulsante di Herem contrasta con lo sperimentalismo dell’introduttiva Just A Room; il ritmo quasi dance della magnifica Eye In The Wall fa da contraltare al clangore di un pezzo coraggioso come Hellbent. Se in passato Mike Hadreas era inquadrabile come artista pop a tutto tondo, pur con un’indole avanguardista, questo CD dà libero sfogo alla sua creatività.

Anche liricamente il lavoro ricalca il tema della reinvenzione, soprattutto dopo anni difficili come quelli che stiamo passando. In Hellbent ritorna il personaggio di Jason, protagonista dell’omonima traccia di “Set My Heart On Fire Immediately”, e Mike canta: “If I make it to Jason’s and put on a show, maybe he’ll soften and give me a loan”. Altrove emerge il tema dell’incertezza (“No pattern” sono le prime parole di Just A Room). In generale, le liriche di Perfume Genius sono molto meno dirette che nel recente passato, dove non si faceva problemi a descrivere la sua infanzia, tragicamente segnata dal nonno violento, o gli atti di bullismo di cui era stato vittima in passato a causa della sua omosessualità.

In generale, “Ugly Season” può essere paragonato a CD estremi per le discografie di certi artisti, come “Kid A” per i Radiohead e “Spirit Of Eden” per i Talk Talk. Vedremo in futuro se questo CD avrà lo stesso potentissimo impatto, di certo possiamo dire che Perfume Genius ha dimostrato una volta di più il suo sconfinato talento.

8) Weyes Blood, “And In The Darkness, Hearts Aglow”

(POP)

Il quinto CD di Natalie Mering con lo pseudonimo Weyes Blood prosegue il percorso artistico intrapreso col pregevole “Titanic Rising” (2019): un pop orchestrale, barocco e raffinato. Ognuno può sentirci reminiscenze diverse: Beach House, Lana Del Rey, Scott Walker, Kate Bush… tanti sono i nomi di prestigio accostabili a Weyes Blood, ormai uno dei nomi capisaldi dell’art pop mondiale.

I 46 minuti di “And In The Darkness, Hearts Aglow” scorrono benissimo: malgrado le canzoni spesso superino i sei minuti di lunghezza, nessuna è eccessivamente monotona, anzi pezzi come It’s Not Just Me, It’s Everybody e Grapevine sono capolavori fatti e finiti. Non tralasciamo poi Children Of The Empire e God Turn Me Into A Flower; solo le troppo brevi And In The Darkness e In Holy Flux aggiungono poco o nulla al risultato finale. Il CD resta comunque squisito ed è il migliore finora nella produzione di Natalie Mering.

Oltre all’orchestrazione ricca e alla produzione sempre impeccabile di Jonathan Rado (Foxygen), a colpire è la splendida voce di Weyes Blood, capace di veicolare sentimenti universali con poche parole ed evocativa di Joni Mitchell. Tra i versi più rilevanti abbiamo: “We are more than our disguises, we are more than just the pain” (Twin Flame); “Rising over the tide, oh hold me tight… You don’t get to know if your love has all it’s gonna take” (Hearts Aglow). Come vediamo, i temi dominanti sono l’amore e la necessità degli esseri umani di amarsi l’uno con l’altro per rendere meno amara la nostra esistenza.

“And In The Darkness, Hearts Aglow” è, a sentire Natalie Mering, il secondo album di una trilogia iniziata con “Titanic Rising”: vedremo se il piano verrà portato a compimento, di certo questo lavoro è il miglior LP art pop dell’anno e un passo in avanti su tutta la linea rispetto al già ottimo predecessore. Avremo già visto Weyes Blood al suo meglio? La risposta al prossimo CD; di certo siamo di fronte ad un’artista speciale.

7) Destroyer, “LABYRINTHITIS”

(ROCK – POP)

Il nuovo album dei Destroyer porta Dan Bejar e compagni verso territori nuovi, a tratti post-punk (Tintoretto, It’s For You) e ambient (la title track), senza mai tralasciare le caratteristiche irrinunciabili che rendono unico il progetto canadese. Possiamo dirlo: è il miglior lavoro a firma Destroyer dai tempi del magnifico “Kaputt” del 2011.

Dan Bejar sembrava aver esaurito la parte migliore della sua ispirazione con la pubblicazione di “ken” (2017), ma sia “Have We Met” (2020) che questo “LABYRINTHITIS” sono in realtà highlights di una carriera in continua evoluzione. Brani riusciti come June, It’s In Your Heart Now e Suffer starebbero benissimo nei migliori lavori dei Destroyer e rendono “LABYRINTHITIS” irrinunciabile per gli amanti della band.

Se musicalmente siamo di fronte ad un piccolo capolavoro, dal punto di vista testuale Bejar si conferma imperscrutabile. Già il titolo del lavoro è un mistero: da nessuna parte si fa riferimento alla labirintite, un disturbo che può colpire l’apparato uditivo. Il riferimento al celebre pittore italiano del ‘600 in Tintoretto, It’s For You è forse ancora più misterioso. La band stessa se ne rende conto, tanto che nel corso di June un verso che risuona è: “Fancy language dies and everyone’s happy to see it go”, mentre in Eat The Wine, Drink The Bread (altro titolo piuttosto bizzarro) Bejar proclama: “Everything you just said was better left unsaid”.

In conclusione, “LABYRINTHITIS” è un’ottima aggiunta ad una discografia di sempre maggior rilievo. Se qualcuno poteva pensare che Dan Bejar e compagni fossero ormai nella fase discendente della carriera, questo LP dovrà farli ricredere: giunti al tredicesimo album di inediti, sembra che siamo di fronte all’inizio di una nuova fase nell’estetica della band.

6) Fontaines D.C., “Skinty Fia”

(ROCK – PUNK)

Giunti al terzo album in soli quattro anni, gli irlandesi Fontaines D.C. sono ormai un punto fermo della scena post-punk d’Oltremanica. Tuttavia, “Skinty Fia” (che si può tradurre con “la maledizione del cervo”) innova il sound del gruppo: accenni di rock gotico ispirato ai Cure (Bloomsday), così come di shoegaze (Big Shot), rendono il CD davvero vario, pur rispettando l’estetica austera della band.

Il titolo del lavoro è diretta espressione dei temi che stanno al cuore di “Skinty Fia”: quattro membri sui cinque del gruppo sono ormai stabili a Londra e il passaggio dalla madrepatria all’Inghilterra è stato traumatico, spingendoli a descrivere questa sensazione di spaesamento. Esemplare In ár gCroíthe go deo, traducibile con “per sempre nei nostri cuori”, che prende spunto da una frase che una donna irlandese trapiantata a Coventry, in UK, voleva fosse scritta sulla sua tomba. La Chiesa d’Inghilterra, tuttavia, si oppose, tanto da arrivare ad un processo che si concluse nel 2021 a favore della famiglia della donna.

In molte canzoni, così come nel tono generale del CD, i Fontaines D.C. danno sfogo a questa vena malinconica, ma non per questo “Skinty Fia” suona uniformemente grigio; anzi, possiamo dire che, rispetto a “Dogrel” (2019) e “A Hero’s Death” (2020), siamo di fronte ad un prodotto innovativo. Oltre alle già citate Big Shot e Bloomsday, abbiamo infatti anche The Couple Across The Way, che sembra una tipica canzone popolare, interamente cantata a cappella dal frontman Grian Chatten, accompagnato solo dalla fisarmonica. La canzone contiene inoltre uno dei versi più belli dell’intero LP: “Across the way moved in a pair with passion in its prime… Maybe they look through to us and hope that’s them in time”. Abbiamo infine un pezzo quasi ballabile: la title track, che assieme a I Love You e Roman Holiday rappresenta il terzetto di canzoni-manifesto del lavoro. Sotto la media solo How Cold Love Is, ma si sposa bene in ogni caso col mood complessivo di “Skinty Fia”.

In conclusione, “Skinty Fia” è un’altra aggiunta di grande valore ad una discografia sempre più valida. Chatten e compagni stanno riscrivendo le regole del post-punk, aiutando a tornare popolare un genere che pareva morto e sepolto da decenni. Che lo facciano cercando anche di sperimentare (con più che discreti tentativi), è un risultato magnifico. “Skinty Fia” è il loro miglior lavoro? Difficile dirlo, c’è chi preferirà la spontaneità di “Dogrel” oppure la perfezione stilistica di “A Hero’s Death”, ma certamente questo CD non intacca l’eredità della band irlandese.

5) Jockstrap, “I Love You Jennifer B”

(POP – ELETTRONICA)

Il duo formato da Georgia Ellery (già parte dei Black Country, New Road) e Taylor Skye aveva fatto intravedere le proprie qualità nell’EP “Wicked City” del 2020: un pop sbilenco, con forte produzione elettronica e momenti di sperimentalismo puro. I risultati erano davvero intriganti, ma “I Love You Jennifer B” ne rappresenta la versione riveduta e corretta e rende il CD imprescindibile per gli amanti di un certo tipo di musica, accessibile ma allo stesso tempo molto creativa.

Prendiamo due dei brani più riusciti del lavoro: se Glasgow è un ottimo brano pop, che potrebbe benissimo scalare le classifiche, Concrete Over Water è una lunga ballata di stampo art pop, sulla scia di Kate Bush. Abbiamo poi Lancaster Court, molto essenziale, ma anche Neon, che invece ha almeno quattro momenti diversi racchiusi nei suoi 225 secondi di durata. Il CD si conclude poi con una sorta di mini DJ set di musica techno e breakbeat, 50/50 – Extended Mix.

Sia chiaro, il disco potrebbe sembrare a tratti fin troppo variegato e incoerente, ma i Jockstrap riescono a mantenere una narrativa uniforme e “I Love You Jennifer B”, anche dopo ripetuti ascolti, non perde il suo fascino. Unico brano inferiore alla media infatti è Angst.

Liricamente, il CD si contraddistingue per versi spesso provocanti e ironici, come ad esempio il seguente, contenuto nella riuscita Greatest Hits: “Imagine I’m Madonna, imagine I’m Thee Madonna, dressed in blue… No, dressed in pink!”. Abbiamo poi frasi più apodittiche: “Grief is just love with nowhere to go” (Debra). In generale, i Jockstrap giocano con gli assunti più comuni della cultura pop, creando un insieme di canzoni magari non perfetto, ma certamente imprevedibile.

In conclusione, “I Love You Jennifer B” è uno dei migliori esordi del 2022: elettronica, pop e musica sperimentale si fondono a tratti perfettamente, rendendo il lavoro davvero affascinante. Sì, pare proprio che abbiamo trovato un volto tra i più brillanti della musica del futuro.

4) The Smile, “A Light For Attracting Attention”

(ROCK)

Quando Thom Yorke si lancia in nuove avventure artistiche, che si parli di album solisti oppure di progetti veri e propri, l’attenzione di tutti è catturata. Se poi contiamo nei The Smile anche il chitarrista Jonny Greenwood, seconda mente creativa dei Radiohead, e Tom Skinner (batterista dei Sons Of Kemet), allora le premesse sono davvero ottime. “A Light For Attracting Attention” in effetti è un lavoro pregevole, al livello dei migliori della band principale di Greenwood e Yorke nei suoi momenti di maggior ispirazione.

L’atmosfera del lavoro viene subito impostata da The Same: siamo nei territori di “Kid A” (2000), con un tocco di “In Rainbows” (2007). La canzone di per sé sarebbe un highlight, ma presa accanto a pezzi magnifici come Free In The Knowledge e Thin Thing è quasi “un brano come gli altri”. La coesione del lavoro, inoltre, aumenta ancora di più il fascino del CD, che risulta inquietante e ammaliante in ugual misura.

Su tutto svetta, ovviamente, la vellutata voce di Yorke, davvero in splendida forma: le canzoni di “A Light For Attracting Attention” non inducono in realtà al sorriso, come farebbe pensare il nome del trio, quanto piuttosto alla riflessione di fronte alle falsità dei politici che ci (mal)governano. Ne sono chiari esempi You Will Never Work In Television Again, dedicata nientemeno che a Silvio Berlusconi (menziona anche il bunga bunga), ed A Hairdryer, che cita l’ex presidente americano Donald Trump e i suoi capelli di strani colori. Altrove emergono temi più spirituali: Open The Floodgates pare infatti l’inno dell’oltretomba, con versi come “Don’t bore us, get to the chorus… We want the good bits, without your bullshit… And no heartaches”.

Ad aggiungere ulteriore interesse alla già ricca ricetta dei The Smile ci si mette la volontà di Thom e compagni di non scimmiottare il sound dei Radiohead, pur avendo il lavoro chiari rimandi, come già evidenziato precedentemente. Ad esempio, You Will Never Work In Television Again è una bella traccia alternative rock, che non ci immagineremmo nei CD recenti del complesso inglese. Lo stesso vale per Thin Thing, con la sua potente progressione. Invece la pur ottima Pana-Vision e Free In The Knowledge sarebbero state benissimo nel seguito di “A Moon Shaped Pool” (2016), ad oggi ultimo LP di inediti a firma Radiohead.

La verità è, per concludere, che “A Light For Attracting Attention” dimostra una volta di più il grandissimo talento di Thom Yorke e Jonny Greenwood i quali, aiutati dal valido Tom Skinner, hanno dato alla luce uno dei migliori album rock dell’anno. Aspettiamo con ancora maggiore trepidazione il nuovo disco dei Radiohead: di benzina ne è rimasta ancora molta nel serbatoio delle due menti principali del gruppo e, accanto a Colin Greenwood, Phil Selway e Ed O’Brien, cose magiche sono già accadute in passato.

3) Arctic Monkeys, “The Car”

(ROCK – POP)

A quattro anni dal bizzarro “Tranquility Base Hotel & Casino”, gli Arctic Monkeys sono tornati. La rock band inglese, tra le più importanti degli scorsi venti anni, è ormai abituata a stupire i propri ascoltatori: dopo aver fatto scalpore con un garage rock energico nei primi due lavori “Whatever People Say I Am, That’s What I’m Not” (2006) e “Favourite Worst Nightmare” (2007), hanno poi virato verso territori più sperimentali in “Humbug” (2009) e verso il britpop (“Suck It And See”, 2011). La vera svolta arrivò con il successo mondiale di pubblico e critica di “AM” (2013), fatto di pezzi hard rock (Arabella) tanto quanto romantici (I Wanna Be Yours), spesso intervallati da inserti R&B (One For The Road).

Come seguire un tale inizio di carriera? Alex Turner e compagni optarono per cambiare completamente percorso; e la svolta resta viva ancora oggi. “Tranquility Base Hotel & Casino” era in sostanza un album lounge pop, basato su una storia di colonizzazione lunare e strani personaggi che popolavano il bar più popolare del luogo… insomma, cose che solo una mente geniale e un po’ stramba come Turner possono concepire. Musicalmente, tuttavia, si parlava di un buon CD, entrato a far parte dei 50 migliori di A-Rock del 2018 senza problemi. “The Car” prosegue sul percorso intrapreso dal precedente album, migliorando però la qualità media delle melodie e tornando sulla Terra come tematiche affrontate: i risultati sono eccellenti e rendono “The Car” un serio favorito per essere il miglior LP della carriera delle scimmie artiche.

Sin dai singoli di lancio avevamo intuito il potenziale del CD: There’d Better Be A Mirrorball è un suadente pezzo pop, molto romantico e dal testo evocativo di una recente rottura amorosa; la funky I Ain’t Quite Where I Think I Am è candidata ad essere un pilastro dei futuri concerti della band, ma il pezzo forte è Body Paint, glam rock ai livelli del miglior David Bowie, con grande parte strumentale finale. Tutti e tre sono tra i migliori pezzi del lavoro, ma le sorprese non finiscono qui.

Sculpture Of Anything Goes è infatti il pezzo più claustrofobico dell’intera carriera degli Arctic Monkeys: il ritmo ossessivo trasmette sensazioni di paranoia e paura, fino a fare del pezzo un highlight del CD. Altri episodi convincenti sono la raccolta title track e la trascinante Hello You; unico inferiore alla media è Jet Skis On The Moat. Apprezzabile il lavoro di squadra della band: se il precedente LP poteva sembrare quasi un capriccio di Turner, questa volta Matt Helders (batteria), Jamie Cook (chitarra) e Nick O’Malley (basso) sono fondamentali per la riuscita di tutte le canzoni della compatta tracklist (37 minuti).

I testi sono come sempre un qualcosa di unico: Alex Turner si conferma osservatore inimitabile e, allo stesso tempo, estremamente timido nell’esprimere quello che realmente sente. Se in Body Paint abbiamo uno dei più significativi versi che si possa dire al proprio partner (“And if you’re thinking of me I’m probably thinking of you”), altrove abbiamo riferimenti a spie (Sculpture Of Anything Goes) e pezzi grossi dal passato misterioso (Mr Schwartz). I temi portanti sono, però, il desiderio di avere finalmente l’amore della vita al suo fianco e l’insicurezza che il non averlo provoca (There’d Better Be A Mirrorball).

In conclusione, “The Car” è un album che si fa apprezzare dopo ripetuti ascolti: se all’inizio i fan più rockettari del gruppo britannico potrebbero essere delusi, non va dimenticato che i quattro nativi di Sheffield sono tra i pochi gruppi per cui la formula “non sai mai quello che potrebbero inventarsi” ha davvero significato. Quattro anni fa chiudevamo la recensione di “Tranquility Base Hotel & Casino” dicendo che gli Arctic Monkeys avrebbero potuto tentare una carriera tanto avventurosa e di successo come Blur e Radiohead. Cosa dire? Gli streaming sono ancora maggiori dei loro colleghi; la qualità delle canzoni continua a rimanere altissima… potremmo davvero averci preso, noi di A-Rock.

2) Big Thief, “Dragon New Warm Mountain I Believe In You”

(ROCK – FOLK – COUNTRY)

Il nuovo LP del complesso americano, il quinto della loro brillante carriera, è un capolavoro fatto e finito, quel manifesto definitivo che tanto aspettavamo dalla band capitanata da Adrianne Lenker. “Dragon New Warm Mountain I Believe In You”, nei suoi 80 minuti, è una summa di quanto fatto in passato dai Big Thief: indie rock (Little Things, Flower Of Blood), folk (Change, Sparrow), addirittura country (Spud Infinity, Red Moon), con apertura a nuovi mondi (Heavy Bends evoca Four Tet, Blurred View il trip hop) e ancora più cura e attenzione ai dettagli. È un fatto: i Big Thief si sono sempre migliorati da un album al successivo. Se questo può essere preso come il loro “White Album”, in chiave beatlesiana, è possibile che presto avremo il nostro “Revolver”, sebbene in ordine invertito rispetto alla linea del tempo dei Fab Four.

La grande varietà del lavoro non va mai a detrimento del risultato complessivo: certo, vi sono highlights come Little Things e Certainty, che saranno classici dal vivo dei Big Thief, ma anche i pezzi che possono passare per minori, come Sparrow e Dried Roses, fanno la loro figura all’interno della tracklist di “Dragon New Warm Mountain I Believe In You”. Se nel 2019 il gruppo aveva deciso di pubblicare una coppia di CD, “U.F.O.F.” e “Two Hands”, che davano sfogo al loro lato più folk e rock ma in tempi diversi, qui hanno deciso di mixare tutto insieme: un atto di coraggio e spavalderia assolutamente ripagato dal risultato finale.

Anche liricamente, come è del resto immaginabile, il disco tocca temi disparati: si parte da Adamo ed Eva (“She has the poison inside her, she talks to snakes and they guide her” canta Lenker in Sparrow), l’amore finito (“Could I feel happy for you when I hear you talk with her like we used to? Could I set everything free when I watch you holding her the way you once held me?”, canta straziata Adrianne in Change) così come il tempo perso dietro agli “schermi” (“Sit on the phone, watch TV. Romance, action, mystery” la frase ironica di Certainty).

È difficile condensare in una recensione la strada percorsa dai Big Thief rispetto all’esordio “Masterpiece” del 2016: quel CD tutto era meno che il capolavoro evocato nel titolo, tuttavia sei anni dopo possiamo dire che “Dragon New Warm Mountain I Believe In You” è quel “masterpiece” promesso da Adrianne Lenker e compagni. I Big Thief sono ormai una certezza nel mondo indie e non smettono di sorprenderci; avevamo già pensato in passato che la traiettoria ascendente della loro carriera fosse finita, ma siamo stati sempre smentiti. Che dire? Speriamo che sia così anche questa volta.

1)  Black Country, New Road, “Ants From Up There”

(ROCK)

Il secondo disco della formidabile band inglese nasce nella tragedia: il frontman Isaac Wood, a pochi giorni dalla pubblicazione del lavoro, ha annunciato la sua dipartita dalla band, a causa di non meglio specificati motivi personali. Pare non esserci alcun astio con gli altri membri dei Black Country, New Road, che peraltro hanno annunciato di voler continuare a produrre musica… vedremo se in futuro Isaac ci ripenserà, ma al momento il destino dei BC, NR è appeso ad un filo.

Pubblicato precisamente un anno dopo il fortunato esordio “For The First Time”, il CD è diverso in alcune caratteristiche, pur mantenendo lo spirito di esplorazione del predecessore. Le atmosfere sono più ovattate, ad esempio in Bread Song la tensione si accumula senza trovare uno sfogo adeguato, ma non per questo bisogna pensare che l’era pop dei Black Country, New Road sia tra noi. Anzi, brani come la lunghissima suite Basketball Shoes e Snow Globes sono tutto meno che commerciali.

Anche liricamente, del resto, l’animo tormentato di Wood ha modo di mostrarsi, attraverso metafore immaginifiche e altri momenti di più diretto sconforto. Ne sono esempi i seguenti versi: “Ignore the hole I dug again, it’s only for the evening” (tratto da Haldern), il drammatico “So I’m leaving this body… And I’m never coming home again!” (Concorde) e “All I’ve been forms the drone, we sing the rest. Oh, your generous loan to me, your crippling interest”, ad oggi le ultime parole declamate da Wood come frontman del complesso londinese, prese da Basketball Shoes.

Musicalmente, dicevamo, “Ants From Up There” è diverso da “For The First Time”: se prima i riferimenti dei Black Country, New Road erano rintracciabili nel mondo post-punk, adesso abbiamo di fronte una strana creatura, a metà tra Slint e Arcade Fire, con tocchi di Radiohead e Neutral Milk Hotel. I pezzi migliori sono la struggente Bread Song, la scombiccherata Snow Globes e Concorde, ma non bisogna sottovalutare la lunga cavalcata che chiude il lavoro, Basketball Shoes. Inferiore alla media solo Good Will Hunting.

“Ants From Up There” potrebbe rappresentare la fine di una carriera troppo breve, oppure l’inizio di un’altra fase altrettanto fertile per i Black Country, New Road. Certo, l’abbandono di Isaac Wood è una batosta, ma le basi su cui poggia l’estetica del gruppo sono solide e abbiamo speranze che il progetto possa tornare ad alti livelli. Se questo fosse il CD di addio, sarebbe comunque un capolavoro di chiusura. Sipario (?).

Segnaliamo che febbraio 2022 è stato davvero un mese pregevole: sia Black Country, New Road che Big Thief hanno pubblicato i loro CD in quel periodo, senza tralasciare Beach House e Mitski. Che ve ne pare di questa lista? Avreste inserito altri nomi? Non esitate a commentare!

I 5 album più deludenti del 2022

Il 2022 ci ha regalato molti ottimi dischi, ma anche alcuni che meritano di essere menzionati per la loro mediocrità. Come di consueto, A-Rock inizia il suo recap di fine anno partendo dai più deludenti album dell’anno: in questa edizione abbiamo lavori di superstar come Drake e Kanye West, così come di band rock stagionate ma finora abbastanza affidabili come Muse e Kasabian. Infine, spazio all’ultimo CD dei Bloc Party. Buona lettura!

Bloc Party, “Alpha Games”

alpha games

I Bloc Party mancavano dalle scene da ben sei anni: al 2016 risale infatti “Hymns”, il disco che all’epoca definimmo come un deciso cambio di passo, ma nella direzione sbagliata. Mischiando gospel con melodie elettroniche, il CD era un fiasco su più o meno tutta la linea, facendo rimpiangere non solo i tempi del fondamentale “Silent Alarm” (2005), ma anche di “A Weekend In The City” (2007).

“Alpha Games” ritorna alle sonorità indie rock che hanno fatto la fortuna del gruppo britannico, un po’ quanto tentato da “Four” (2012): anche in questa occasione, tuttavia, l’energia dei tempi migliori non è presente nella maggior parte dei brani. Abbiamo momenti interessanti come l’iniziale Day Drinker, in cui il cantato di Kele Okereke rasenta l’hip hop, oppure la buona Traps. Accanto a questi troviamo però Rough Justice e By Any Means Necessary, che sembrano b-side dei tempi d’oro del gruppo. Peccato poi che Callum Is A Snake, con potente base punk, duri solo due minuti.

Il maggior problema di “Alpha Games” è che pare estratto da un anno a caso tra il 2001 e il 2007: i Bloc Party, malgrado i cambi di formazione avvenuti nel corso degli anni, che hanno portato Gordon Moakes (basso) e Matt Tong (batteria) ad essere rimpiazzati, con perdite, da Justin Harris e Louise Bartle, sono tornati alla fine alle sonorità delle origini, ovviamente con minor impatto e ispirazione.

Pur rappresentando quindi un progresso rispetto ad “Hymns”, “Alpha Games” resta un lavoro mediocre, in cui i Bloc Party si aggrappano a quello che sanno fare meglio (un indie rock sbarazzino e ballabile) con disperazione, forse sapendo che mai torneranno alla miracolosa creatività che ha reso “Silent Alarm” un disco fondamentale degli anni ’00.

Drake, “Honestly, Nevermind”

honestly nevermind

Il primo disco pubblicato nel 2022 dalla popstar canadese tenta di cambiare le carte in tavola di un’estetica da troppo tempo bloccata sui binari ben noti del pop-rap, con parziali inflessioni trap. I risultati? Non buoni purtroppo, segno di un Drake tremendamente affaticato.

Una cosa colpisce subito di “Honestly, Nevermind”: è come se Drake avesse provato a ricreare Passionfruit per 14 volte e 52 minuti di durata complessiva. L’esito di questo esperimento non è soddisfacente, ma se non altro denota un Drake voglioso di tornare protagonista anche sul lato creativo.

Se fino a “Certified Lover Boy” (2021) avevamo dei CD a firma Drake sovraccarichi, lunghi ma pieni di ospiti di spessore e sample spesso irresistibili, “Honestly, Nevermind” va molto all’essenziale, un po’ come “If You’re Reading This It’s Too Late” (2015). Il fatto, poi, che ormai per lui rappare sia più un passatempo che la principale caratteristica della sua estetica rende quei pochi brani carichi di rime, come Sticky, degli eventi.

La cosa che più sorprende in negativo di questo LP, che lo distingue dal passato della produzione del Nostro, è che sono poche le canzoni davvero memorabili: “Honestly, Nevermind” pare più una playlist da ascoltare di sottofondo in spiaggia che un insieme articolato e coerente. Se “More Life” (2017) almeno era un prodotto vivo e creativamente notevole nei suoi momenti migliori, questo CD invece suona per lo più piatto.

La parte più interessante del disco è quella centrale, in particolare il duo formato da Sticky e Massive, che sposano bene rap e house. Da menzionare poi la collaborazione con 21 Savage, Jimmy Cooks, che chiude il lavoro. Invece molto deboli Falling Back, Liability e Calling My Name.

In conclusione, “Honestly, Nevermind” segna allo stesso tempo un passo avanti e uno indietro per Drake: se da un lato lo vediamo più aperto a sperimentare con generi disparati come house, dance e ritmi africaneggianti, dall’altro la qualità delle canzoni continua a latitare. L’artista capace di comporre LP riusciti come “Take Care” (2011) e “Nothing Was The Same” (2013) tornerà mai a quei livelli?

Kanye West, “Donda 2”

donda 2

Il secondo CD pubblicato da Kanye West in memoria della madre è il peggiore della sua carriera, di gran lunga: se in passato, anche nei momenti più cupi, il rapper statunitense era riuscito a trarre qualcosa di buono dalle sessioni di registrazione (già il primo “Donda” zoppicava molto da questo punto di vista), nel 2022 il suo essere bipolare ha evidentemente avuto la meglio. Basta rileggersi a tal riguardo le sue dichiarazioni sconcertanti sull’ebraismo o sulla storia degli afroamericani.

In “Donda 2” non funziona nulla o quasi: la produzione, un tempo punto di forza in ogni LP a firma Kanye West, è spesso un’aggravante, quasi fossimo di fronte a dei demo e non ad un prodotto finito. Si fa prima a menzionare le buone canzoni di quelle cattive, in una tracklist tanto frammentaria quanto spesso incomprensibile: abbiamo due buone melodie (City Of God e True Love), ma d’altro canto Louie Bags e Get Lost sono pressoché inascoltabili.

Colpisce poi il testo di molte melodie: Ye (come West si fa chiamare ora) utilizza questo disco più come pretesto per attaccare la ex moglie Kim Kardashian e il suo (ex) nuovo fidanzato Pete Davidson piuttosto che per onorare la memoria della madre.

Insomma, c’è davvero poco da salvare: “Donda 2”, presentato come un lavoro rivoluzionario in grado di cambiare la musica grazie alla sua associazione al cosiddetto Stem Player, si è rivelato un flop colossale. Date le sue ultime sparate, Kanye West si è dimostrato un uomo che ha bisogno di aiuto: vedere l’autore di album immortali come “Late Registration” (2005) e “My Beautiful Dark Twisted Fantasy” (2010) in questo stato è davvero triste.

Kasabian, “The Alchemist’s Euphoria”

The Alchemists Euphoria

I Kasabian hanno attraversato tempi molto difficili recentemente: nel 2020, in piena pandemia, il frontman del gruppo Tom Meighan è stato arrestato per aver picchiato la fidanzata, reato di cui poi si è dichiarato colpevole. Il gruppo non ha potuto far altro che espellerlo, con tutte le conseguenze del caso.

Questo “The Alchemist’s Euphoria” è quindi una sorta di nuovo inizio per la band, autrice di successi dei primi anni ’00 come Club Foot e Fire… tutto questo, però, è ormai un ricordo. Va detto che, anche nelle ultime uscite con Meighan, il complesso britannico non era apparso in grande forma: sia “48:13” (2014) che “For Crying Out Loud” (2017) erano infatti CD poco lucidi ed ispirati, soprattutto il primo.

Purtroppo, anche “The Alchemist’s Euphoria” non fa molto per risollevare il destino dei Kasabian: Sergio Pizzorno alla voce non suona benissimo e molte canzoni sono eccessivamente influenzate da molteplici direttrici. House, hip hop, R&B… il CD è, come da titolo, un’alchimia, purtroppo mal riuscita. Prova ne siano ROCKET FUEL, ALYGATYR e STRICTLY OLD SKOOL.

Peccato, perché alcuni lampi restano discreti: l’iniziale ALCHEMIST non è male, così come T.U.E (the ultraview effect) e STARGAZR. Ma i momenti di sconforto sono maggiori di quelli positivi, circostanza che rende il pur coraggioso cambio di pelle operato dai Kasabian un buco nell’acqua. Spiace ammetterlo, ma il destino della band pare segnato.

Muse, “Will Of The People”

will of the people

Il nono CD della band capitanata da Matt Bellamy è un mezzo fallimento. Se “Simulation Theory” (2018), pur con brani deboli come Dig Down, era un’innovazione pop nell’estetica dei Muse, “Will Of The People” è un mix di idee spesso sbagliate, che si rifanno al passato del gruppo e a quello della musica (soprattutto Queen e AC/DC).

Il primo singolo Won’t Stand Down aveva in realtà sollecitato attenzioni benevole: il sound metal del pezzo è una ventata di freschezza benvenuta in un LP altrimenti debole sotto molti punti di vista. Prova ne sia Compliance: un pasticcio pop piuttosto insopportabile. Prevedibile anche la ballata Ghosts (How I Can Move On).

Anche dal punto di vista testuale i Muse questa volta lasciano a desiderare: se in passato i Nostri erano stati in grado di scrivere convincenti inni di resistenza (Uprising) inseriti in concept album magari sovraccarichi di influenze, ma mai prevedibili (“The Resistance” del 2009), questa volta abbiamo canzoni radicali come la title track e Liberation, ma anche titoli come We Are Fucking Fucked… insomma, poco da salvare anche in questo ambito.

La cosa incredibile è che, malgrado queste evidenti lacune, il CD è in qualche modo salvabile: Bellamy è sempre convincente come cantante e regge quasi da solo pezzi come Verona e Liberation, mentre la base ritmica di Chris Wolstenholme e Dominic Howard brilla in Kill Or Be Killed ed Euphoria. Le migliori melodie di “Will Of The People” sono quindi Won’t Stand Down e Kill Or Be Killed, mentre molto deludenti sono Compliance e You Make Me Feel Like It’s Halloween.

Pare purtroppo che i Muse abbiano perso quella furia, unita all’attenzione per i giusti ganci pop, che hanno reso la tripletta “Origin Of Symmetry” (2001) -“Absolution” (2003) -“Black Holes And Revelations” (2006) dischi imperdibili nei primi anni ’00. “Will Of The People” è indiscutibilmente il più brutto LP della loro produzione e fa nascere cattivi pensieri sul futuro della band.

I 20 migliori album del 2012

Ad A-Rock è ormai tradizione, prima di presentare le liste dei migliori e peggiori dischi dell’anno, fare un salto nel passato, per ripercorrere insieme i CD che più hanno segnato un certo anno.

Quest’anno la nostra attenzione si concentra sul 2012: un anno fondamentale per la scena musicale contemporanea, in cui artisti del calibro di Frank Ocean, Tame Impala e Kendrick Lamar hanno pubblicato i lavori che li hanno definitivamente fatti esplodere a livello di consenso di pubblico e critica. Inoltre, Beach House e Grizzly Bear hanno pubblicato quelli che sono, ad oggi, i migliori LP nella loro già pregiata produzione.

Chi avrà vinto il titolo di miglior disco del 2012? Buona lettura!

20) Miguel, “Kaleidoscope Dream” (R&B)

19) Parquet Courts, “Light Up Gold” (ROCK)

18) Dirty Projectors, “Swing Lo Magellan” (ROCK)

17) Grimes, “Visions” (POP – ELETTRONICA)

16) Ty Segall, “Slaughterhouse” / ”Hair” / ”Twins” (ROCK)

15) Mac DeMarco, “2” (ROCK)

14) Killer Mike, “R.A.P. Music” (HIP HOP)

13) Chromatics, “Kill For Love” (ELETTRONICA – ROCK)

12) Lotus Plaza, “Spooky Action At A Distance” (ROCK)

11) Cloud Nothings, “Attack On Memory” (PUNK – ROCK)

10) Flying Lotus, “Until The Quiet Comes” (ELETTRONICA)

9) Alt-J, “An Awesome Wave” (ROCK)

8) Burial, “Kindred EP”/ ”Truant / Rough Sleeper EP” (ELETTRONICA – SPERIMENTALE)

7) Death Grips, “The Money Store” (HIP HOP – SPERIMENTALE)

6) Godspeed You! Black Emperor, “Allelujah! Don’t Bend! Ascend!” (ROCK – SPERIMENTALE)

5) Kendrick Lamar, “Good Kid, M.A.A.D. City” (HIP HOP)

4) Grizzly Bear, “Shields” (ROCK)

3) Beach House, “Bloom” (POP)

2) Tame Impala, “Lonerism” (ROCK)

1) Frank Ocean, “Channel Orange” (R&B)

Che ne pensate di questi magnifici 20 album del 2012? Non esitate a lasciare commenti e suggerimenti!

Recap: ottobre 2022

Dopo un settembre davvero denso, anche ottobre non è stato da meno. Oltre agli Arctic Monkeys, a cui abbiamo dedicato un articolo ad hoc, abbiamo infatti recensito album molto attesi da pubblico e critica, come il terzo album degli Alvvays e il ritorno di Carly Rae Jepsen. Inoltre, sul versante pop spazio a Taylor Swift e The 1975. Abbiamo poi il secondo CD del 2022 dei Red Hot Chili Peppers e il ritorno dei Sorry. Spazio, infine, al ritorno dei Dry Cleaning e al secondo EP del 2022 di Burial. Buona lettura!

Alvvays, “Blue Rev”

blue rev

I canadesi Alvvays mancavano da ben cinque anni dalla scena musicale. “Antisocialites” risale infatti al 2017: il CD pareva lanciarli verso una buona carriera nel mondo indie, con forti influenze shoegaze. Invece poi, tra problemi di furti, alluvioni e la pandemia, la registrazione del seguito “Blue Rev” è slittata fino al 2022, un anno che si sta rivelando sempre più ricco di album imperdibili, in ogni genere.

“Blue Rev” è infatti davvero squisito: The Smiths, R.E.M. e Lush fanno capolino qua e là come influenze, ma gli Alvvays hanno praticamente scritto il manifesto del suono dello shoegaze del 2022. Certo, ci sono tracce maggiormente dream pop (Bored In Bristol) o indie rock (Pomeranian Spinster), ma gli Alvvays hanno un sound tutto loro, accattivante e con picchi davvero notevoli come Pharmacist e Easy On Your Own?. Il replay value è garantito.

Il disco si compone di numerose canzoni, ma generalmente molto brevi, tanto che la durata complessiva arriva ad appena 38 minuti. La prima parte è eccezionale: Pharmacist, Easy On Your Own e After The Earthquake sono infatti una tripletta vincente su tutti i fronti. Abbiamo poi altre perle nascoste, come Velveteen e Belinda Says. Inferiori alla media solamente Pressed e Fourth Figure, ma restano utili nell’economia di “Blue Rev”, capace di alternare momenti più rock ad altri maggiormente intimisti in maniera ottimale.

In conclusione, “Blue Rev” è il capolavoro che chiunque avrebbe augurato agli Alvvays: se l’omonimo esordio “Alvvays” (2014) e “Antisocialites” sembravano buoni ma non ancora completamente centrati, questo LP definisce un nuovo benchmark per lo stile shoegaze. Chapeau.

Voto finale: 8,5.

The 1975, “Being Funny In A Foreign Language”

Being Funny In A Foreign Language

Il quinto album della band britannica è il loro CD più conciso e coeso: un bene, ma allo stesso tempo Matty Healy e compagni hanno abbandonato quella strafottenza che li rendeva speciali, capaci di spaziare nello stesso LP dall’elettronica al pop da classifica, passando per il rock alternativo e gli appelli ambientalisti di Greta Thunberg (!).

“Being Funny In A Foreign Language” è infatti concentrato sull’aspetto pop-rock e new wave della loro estetica, facendo tornare la mente ai tempi di “I Like It When You Sleep, For You Are So Beautiful Yet So Unaware Of It” (2016), l’album che conteneva successi come Somebody Else e She’s American. Abbiamo infatti delle canzoni incredibilmente belle, come l’impeccabile Happiness, la stramba Part Of The Band e la trascinante About You, che rimandano rispettivamente a Duran Duran, a Bon Iver e al sound anni ’80 che tanti adepti sta facendo negli ultimi anni. Menzione poi per The 1975, che cita la leggendaria All My Friends degli LCD Soundsystem.

Accanto a questa parte sfrontata e mainstream, abbiamo dei pezzi quasi folk, in cui i The 1975 si avvalgono della produzione di Jack Antonoff, già collaboratore di molte popstar (Lana Del Rey, Lorde e Taylor Swift tra le altre). Prova ne siano la romantica All I Need To Hear e Human Too, che danno un buon cambio di ritmo al CD.

Anche liricamente, come sempre nei dischi dei The 1975, abbiamo una certa ambivalenza: se da un lato abbiamo versi toccanti e ricercati al punto giusto, come “You’re making an aesthetic out of not doing well and mining all the bits of you you think you can sell” (The 1975) e “In case you didn’t notice, I would go blind just to see you” (Happiness), dall’altro la pretenziosità di altre liriche è deludente (“Am I just some post-coke, average, skinny bloke calling his ego imagination?”, da Part Of The Band). Ma i lettori di A-Rock ormai lo sanno: con Matty Healy è prendere o lasciare.

In conclusione, nulla o quasi (solo Wintering è inferiore alla media) gira a vuoto nei 44 minuti di “Being Funny In A Foreign Language”, che conferma il talento dei The 1975, ad oggi il gruppo pop-rock più interessante su piazza. Certo, ci sarà chi rimpiangerà l’ambizione sfrenata di “A Brief Inquiry Into Online Relationships” (2018) e “Notes On A Conditional Form” (2020), ma Healy e co. sembrano entrati in una nuova fase della loro carriera. Vedremo il futuro dove li condurrà: di certo, la band pare avere ancora benzina nel proprio serbatoio.

Voto finale: 8.

Taylor Swift, “Midnights”

midnights

Il decimo album della popstar americana ritorna, almeno in parte, al frizzante mix che ne ha fatto la fortuna a partire da “Red” (2012): un pop vivace, carico al punto giusto, che affronta le gioie e i dolori dell’amore. Tuttavia, Taylor è ormai una donna e alcune delle riflessioni di “Midnights”, unite a una produzione più oscura e meditativa del passato, rendono il CD un unicum nella sua produzione.

Non è una frase fatta: Taylor negli ultimi anni pare diventata una vera stakanovista, basti pensare che tra 2019 e 2022 ha pubblicato quattro album di inediti, più due ristampe del suo catalogo al fine di poter recuperare appieno i diritti sulla propria musica. I due album pandemici “folklore” ed “evermore” (entrambi del 2020) sono tra i CD di maggior successo scritti in quel periodo tragico delle nostre vite e avevano fatto intravedere il lato più folk di Swift; tuttavia “Midnights”, come detto, ritorna alle origini, ma con maggiore maturità.

A partire dalle collaborazioni (Lana Del Rey in Snow On The Beach) e dal produttore (il celeberrimo Jack Antonoff), Taylor Swift ha voluto fare le cose in grande: abbiamo poi influenze di Billie Eilish (Vigilante Shit) e addirittura una base quasi trap (Midnight Rain). Sottolineiamo poi lo scarsissimo battage mediatico che ha preceduto il lavoro: nessun singolo di lancio, canzoni presentate solo attraverso dei brevi video sui social e rade interviste. Decisamente un approccio non da Taylor Swift pre-Covid-19.

I risultati, infine: “Midnights” come qualità è più vicino al brillante “Red” o al flop “Reputation” (2017)? Oppure magari si colloca su un buon livello, come “Lover” (2019)? Diciamo che questo LP è assimilabile proprio a “Lover”: non troviamo Taylor Swift al suo meglio, ma sicuramente “Midnights” rappresenta un buon lavoro, che piacerà ai fan della prima ora della cantautrice statunitense. Tra gli highlight abbiamo Anti-Hero, Lavender Haze e la bella cavalcata di You’re On Your Own, Kid. Invece sotto la media Midnight Rain e Vigilante Shit.

Le liriche sono, come sempre, da analizzare in profondità quando parliamo di Taylor Swift: “It’s me, hi, I’m the problem” dichiara sconsolata in Anti-Hero. Sweet Nothing, la ballata più semplice del lavoro, contiene invece il seguente, delicato verso: “On the way home I wrote a poem. You say, ‘What a mind’… This happens all the time”. In generale, come già accennato, prevalgono i temi legati all’amore, ma con una prospettiva più matura rispetto al passato.

In conclusione, negli ultimi anni Taylor Swift è diventata meritatamente una delle cantautrici pop più apprezzate da pubblico e critica: “Midnights” non cambia le sorti di una carriera già avviatissima, ma rappresenta senza dubbio un LP riuscito, che cementa ulteriormente la fama di Swift.

Voto finale: 8.

Sorry, “Anywhere But Here”

Anywhere But Here

Il secondo album della band britannica mantiene il mood misterioso per cui i Sorry sono apprezzati nel mondo indie. Se l’esordio “925” (2020) e il breve EP “Twixtustwain” (2021) avevano mostrato i lati più sperimentali dei Sorry, in “Anywhere But Here” Asha Lorenz e Louis O’Breyen, i due membri del gruppo, si aprono a sonorità pop, che rendono il CD più orecchiabile del previsto.

Questo non va a detrimento, come accennavamo inizialmente, del fascino dei Sorry: il mistero ancora circonda molte canzoni, sia come liriche che per quanto riguarda la struttura. Basti ascoltare Tell Me, che parte quasi jazz e finisce come un pezzo degli Strokes. Sono, tuttavia, i pezzi più morbidi a colpire: i singoli Let The Lights On e Key To The City sono highlight della loro carriera al momento. Ottima anche Closer.

Il CD procede a sbalzi: abbiamo l’inizio trascinante di Let The Lights On e la strana Tell Me, poi la fin troppo romantica There’s So Many People Who Want To Be Loved e la sbilenca Step… la struttura dell’album è variegata, ma mai fine a sé stessa. Vi sono giusto un paio di episodi più deboli, Baltimore e Quit While You’re Ahead, ma i risultati restano più che accettabili.

I testi delle canzoni sono quanto mai espressivi: Closer, malgrado il titolo possa far pensare a dei riferimenti alla propria intimità da parte di Lorenz e O’Breyen, parla in realtà della mortalità di ciascuno di noi (“Closer to the ether, closer to the worms” il verso più esplicito). Altrove troviamo liriche più sognanti (“The world shone like a chandelier… And I was lost for good”, Again).

In conclusione, “Anywhere But Here” evidenzia una volta di più il potenziale dei Sorry. Le due voci di Asha Lorenz e Louis O’Breyen rimangono tra le più originali nel panorama indie rock d’Oltremanica: vedremo in futuro se i due seguiranno i loro impulsi più ambiziosi e sperimentali, oppure se vireranno verso atmosfere più accettabili anche dal pubblico mainstream.

Voto finale: 7,5.

Red Hot Chili Peppers, “Return Of The Dream Canteen”

return of the dream canteen

Il secondo album del 2022 dei RHCP, per un totale di 34 brani pubblicati (!), espande quanto già presentato in “Unlimited Love”: la chitarra di John Frusciante in primo piano in quasi tutte le composizioni, testi assurdi oppure nostalgici, una durata tanto eccessiva (75 minuti) quanto generosa per i propri fan… Insomma, siamo di fronte ad un tipico album dei Red Hot Chili Peppers.

Non si pensi, però, che “Return Of The Dream Canteen” sia composto dagli scarti delle sessioni che hanno portato a “Unlimited Love”: anzi, in molte cose i due CD si equivalgono. Ad esempio, Tippa My Tongue e Eddie, canzone tributo al mitico Eddie Van Halen, sono buonissimi pezzi e sono tra gli highlight non solo del disco, ma della produzione di Anthony Kiedis e co. dal 2006 in avanti.

Date queste premesse, aspettarsi un capolavoro di fine carriera da parte dei Red Hot Chili Peppers sarebbe un azzardo; tuttavia, alcuni momenti resisteranno alla prova del tempo e, probabilmente, saranno dei capisaldi dei concerti dei Nostri. Oltre alle già ricordate Eddie e Tippa My Tongue, non sono per niente male Peace And Love e Reach Out. Invece alcune melodie sanno eccessivamente di già sentito: è questo il caso di Roulette e La La La La La La La La. Interessante poi l’esperimento di Frusciante al sax in My Cigarette.

In conclusione, “Return Of The Dream Canteen” è un altro solido CD a firma Red Hot Chili Peppers: Kiedis, Chad Smith, Flea e il “figliol prodigo” John Frusciante hanno dimostrato ancora una volta la loro capacità di navigare le acque del rock alternativo e del funk con qualità, pur mancando l’inventiva e le scintille che hanno portato “Californication” (1998) a diventare un classico.

Voto finale: 7,5.

Dry Cleaning, “Stumpwork”

stumpwork

Il secondo album dei britannici Dry Cleaning, oltre ad avere una delle cover più strambe degli ultimi tempi, espande quello che era il suono del loro esordio “New Long Leg” (2021), oggetto anche di un profilo Rising del nostro blog per il suo strano mix di post-punk e una voce tanto piatta quanto capace di descrivere la quotidianità con nitidezza.

“Stumpwork” riprende quanto intravisto con “New Long Leg”, cercando però di creare dinamiche diverse, che a volte richiamano addirittura il dream pop (Conservative Hell) e il post-rock (Liberty Log). A colpire, come già anticipato, è il modo in cui la frontwoman Florence Shaw approccia il suo ruolo: voce inespressiva, quasi come si fosse davanti alla voce del Tom Tom o del traduttore. Può piacere o meno, ma è un tratto caratteristico del gruppo, che lo associa a leggende del passato come i Sonic Youth, senza però la loro stessa furia iconoclasta.

Come sempre, i testi sono il pezzo forte dei lavori dei Dry Cleaning: Shaw riesce a farci scordare la durezza degli scorsi due anni parlandoci della sua tartaruga, Gary Ashby, fuggita di casa nell’omonima Gary Ashby. Altrove abbiamo buoni consigli di vita (“For a happy and exciting life… stay interested in the world around you” canta Florence in Icebergs) e più o meno gentili richieste di lasciarla stare mentre gioca al computer (“Just don’t touch my gaming mouse”, Don’t Press Me). Il verso migliore è però contenuto nella notevole No Decent Shoes For Rain: “Oh, you drink wine and go on holiday now? OK! Well, OK, well, OK well” suona contemporaneamente arrabbiato e assurdo.

Oltre alla già menzionata No Decent Shoes For Rain, anche Hot Penny Day e la più raccolta Conservative Hell sono convincenti. Sotto la media invece Gary Ashby e la troppo breve Don’t Press Me.

Il CD può apparire difficile da digerire, soprattutto per i non fan del cosiddetto spoken-word, ossia quel modo di cantare che quasi equivale al tono colloquiale. Tuttavia, diamo atto ai Dry Cleaning di avere una propria identità in un’affollatissima scena post-punk britannica. “Stumpwork”, anche grazie alla produzione del veterano John Parish (in passato collaboratore di PJ Harvey), riesce a convincere anche nei suoi momenti meno ispirati. Non parliamo di un capolavoro, ma sicuramente di un buon LP post-punk.

Voto finale: 7,5.

Burial, “Streetlands”

streetlands

Non sono stati solo Jack White e i Red Hot Chili Peppers a pubblicare due lavori nel corso del 2022 (lasciamo da parte i King Gizzard & The Lizard Wizard, giunti addirittura a cinque!). Burial, il misterioso musicista inglese, segue “Antidawn” con questo “Streetlands”, secondo EP dell’anno per lui. I risultati restano discreti, ma nulla più: ribadiamo che i suoni ambient sembrano adattarsi meno rispetto al dubstep al Nostro.

L’EP si compone di tre tracce: Hospital Chapel, la title track ed Exokind. La prima è la più breve, arrivando ad otto minuti scarsi; invece, le seguenti melodie superano abbondantemente i dieci minuti. In generale, si conferma l’estetica complessiva del Burial più recente: panorami desertici evocati attraverso il minimo indispensabile, quasi fossimo in una colonna sonora di un film horror. A colpire è, inoltre, la totale assenza di percussioni: il musicista che aveva rivoluzionato la scena elettronica con l’ormai classico “Untrue” (2007) sembra ormai scomparso.

La traccia migliore è Streetlands, mentre è fin troppo monotona, pur essendo la più breve del lotto, Hospital Chapel. Il mood misterioso è quindi garantito dalla coerenza delle tre canzoni tra loro, ma i risultati complessivi sono appena sufficienti.

“Streetlands” conferma un Burial alla ricerca del prossimo step per la sua carriera: abbandonata (almeno apparentemente) la scena dubstep, il produttore britannico sta però faticando a trovare ispirazione nell’ambient. Vedremo se in futuro continuerà su questa strada oppure proverà a ripetere il miracolo più dubstep degli inizi di carriera.

Voto finale: 6,5.

Carly Rae Jepsen, “The Loneliest Time”

the loneliest time

Il nuovo album di Carly Rae Jepsen prosegue il percorso pop intrapreso ormai dieci anni fa, fatto di canzoni frizzanti, tastiere sempre in evidenza e testi spesso sospesi tra amori infranti e il desiderio di evadere dalla realtà. Tuttavia, se da un lato abbiamo alcune canzoni davvero poco ispirate, altre sembrano preludere ad un leggero cambio di estetica, che potrebbe giovare nel medio termine alla canadese.

“The Loneliest Time”, già dal titolo, sembra anticipare un CD più intimo rispetto alla doppietta “Dedicated” (2019) e “Dedicated Side B” (2020); e in effetti il primo singolo scelto da Jepsen per lanciare il lavoro, Western Wind (che vanta la collaborazione di Rostam Batmanglij, ex Vampire Weekend), è quasi cantautorale ed è uno degli highlight del disco. Invece altri episodi sono davvero deboli e forse non è un caso che siano le canzoni che più “suonano” come ci si aspetterebbe da Carly Rae Jepsen: sia Beach House che Joshua Tree sono infatti brani pop vuoti e per nulla interessanti. Altre buone prove sono invece Surrender My Heart e Bends. Citiamo infine la title track, che vanta la collaborazione di Rufus Wainwright.

In conclusione, “The Loneliest Time” non è certo il miglior lavoro dell’autrice della celeberrima Call Me Maybe: quel posto è probabilmente occupato da “E•MO•TION” (2015). Allo stesso tempo, pur essendo probabilmente un album di transizione, il CD contiene alcune tracce di un possibile futuro alternativo rispetto a quello da popstar che tutti conosciamo, che potrebbe contenere un risvolto imprevisto ma roseo per Jepsen.

Voto finale: 6,5.

Rising: Shygirl

Nella nuova puntata della rubrica di A-Rock che si occupa degli artisti emergenti ci occupiamo di Shygirl, una giovane produttrice inglese che sta influenzando fortemente la scena elettronica d’Oltremanica.

Shygirl, “Nymph”

Nymph

In un 2022 sempre più affollato di uscite rilevanti, mancava giusto un esordio di musica elettronica ben fatto. Blane Muise (vero nome di Shygirl) è riuscita nella missione: partendo dalle solide basi dell’EP “ALIAS” (2020) ha costruito un CD pieno di tracce ballabili, ma anche influenzate da hip hop (Shlut) e pop (Firefly).

A colpire maggiormente sono due cose: la capacità di Shygirl di creare un prodotto variegato ma allo stesso tempo coerente; e percepire tante influenze diverse (Jamie xx, Arca…) senza però suonare derivativa.

“Nymph” contiene degli innegabili highlight, soprattutto tra le tracce più oscure e meno commerciali: Woe e Come For Me sono un’ottima doppietta, che apre benissimo il lavoro. Sotto media invece la troppo breve Missin U e Nike, ma non intaccano eccessivamente un CD comunque ben costruito.

Liricamente, pur essendo un album di musica prevalentemente elettronica, “Nymph” conferma il candore di Shygirl nel parlare della propria vita privata e dei propri desideri: “Is it so bad to just like to be touched?” chiede in maniera fintamente innocente in Shlut. Altrove abbiamo poi storie di sesso, come evocato nel titolo di Coochie (A Bedtime Story), che contribuiscono a rendere il disco molto sensuale e pronto a sfondare nelle discoteche di mezzo mondo.

In conclusione, “Nymph” presenta sulla scena una futura protagonista della musica elettronica. Molti critici avevano già messo gli occhi su Blane Muise, ma immaginarla capace di creare un LP così coeso e ben strutturato non era scontato. Shygirl si candida ad essere un nome importante della musica del futuro.

Voto finale: 7,5.

Recap: settembre 2022

Settembre è stato un mese molto importante. Abbiamo infatti recensito i nuovi lavori del rapper Freddie Gibbs e di Sudan Archives. Inoltre, spazio all’esordio da solista di Oliver Sim e ad Alex G. Come tralasciare, poi, gli attesissimi ritorni di Björk e degli Yeah Yeah Yeahs? Infine, abbiamo analizzato il secondo lavoro di Rina Sawayama, quello di Djo e il ritorno dei Suede. Buona lettura!

Björk, “Fossora”

fossora

Il decimo album dell’artista islandese più nota al mondo continua la sua ricerca del perfetto album art pop. Mescolando temi mondani come il Covid-19 e il lutto passato per la morte della madre Hildur, Björk ha creato un altro CD squisito, sulle tracce dei migliori della sua produzione e un netto progresso rispetto al precedente “Utopia” (2017).

Questa volta l’artista islandese ha privilegiato i bassi e i clarinetti, creando atmosfere accessibili (Ancestress) e allo stesso tempo oscure (Atopos), con momenti di puro sperimentalismo (Mycelia). I risultati sono in generale incredibili: nei suoi momenti più riusciti “Fossora” arriva molto vicino alle vette di “Post” (1995) e “Homogenic” (1997), i due LP più celebrati della Nostra. Prova ne siano Atopos e la title track.

Il tema portante, sia della cover che di molti titoli, sono i funghi. Se “Utopia” era un album che dedicava molto spazio all’amore e all’aria come elemento naturale, “Fossora” (parola inventata da Björk che significa, dal corrispettivo latino maschile, “scavatrice”) è invece dedicato alla terra e scava nei rapporti familiari.

Dicevamo che gli argomenti principali del lavoro sono due: la pandemia e la morte della madre. Björk evoca spesso la figura di quest’ultima, con versi spesso toccanti: “Did you punish us for leaving? Are you sure we hurt you? Was it just not ‘living?’” (Ancestress); “Rejection left a void that is never satisfied, sunk into victimhood… Felt the world owed me love” (Victimhood). Il verso più bello è contenuto nella conclusiva Her Mother’s House: “When a mother wishes to have a house with space for each child, she is only describing the interior of her heart”. A rafforzare il sentimento di famiglia che pervade “Fossora”, Björk canta con la collaborazione, oltre che di serpentwithfeet (Fungal City), dei figli Sindri (Ancestress) e Isadora (Her Mother’s House).

Esclusi i due intermezzi Fagurt Er Í Fjörðum e Mycelia, eccessivamente brevi per lasciare traccia, il CD scorre benissimo, malgrado stiamo parlando di un lavoro per palati fini, amanti dell’elettronica più sperimentale e del pop più raffinato. “Fossora” è un highlight di una carriera già piena di dischi imprescindibili: Björk si conferma nome ormai leggendario.

Voto finale: 8,5.

Yeah Yeah Yeahs, “Cool It Down”

cool it down

Il primo CD in nove anni per la storica band newyorkese, una delle più autorevoli ad emergere nei primi anni ’00, è una ventata di aria fresca in una carriera che pareva aver dato il meglio. “Mosquito” (2013), l’ultimo album di inediti prima di “Cool It Down”, è visto infatti da molti come il peggiore della loro produzione; è un piacere che “Cool It Down” riesca dal canto suo a rinverdire i fasti del complesso capeggiato da Karen O.

I due singoli di lancio del lavoro erano del resto davvero invitanti: sia Spitting Off The Edge Of The World (che vanta la collaborazione di Perfume Genius) che Burning sono infatti ottimi pezzi indie rock, il primo reminiscente dei migliori M83 e il secondo invece dell’indie di inizio millennio. Non tutto gira a meraviglia nel CD nel suo complesso, ma i 32 minuti di “Cool It Down” scorrono piacevolmente, rendendolo imperdibile per gli amanti dell’indie rock.

La prima parte dell’album è pressoché impeccabile: oltre alle già citate Spitting Off The Edge Of The World e Burning, le due tracce Wolf e Fleez, tra le più danzerecce del lotto, fanno il loro lavoro e rendono il CD dinamico e variegato. I problemi cominciano con Different Today, in cui la cantante degli Yeah Yeah Yeahs Karen O si limita a ripetere il titolo senza molto costrutto. Peccato poi per la conclusiva Mars, quasi troncata, che fa terminare il lavoro in modo non soddisfacente.

Questi difetti non sono, tuttavia, dirimenti per il giudizio complessivo su “Cool It Down”. Il CD ristabilisce gli Yeah Yeah Yeahs tra gli alfieri dell’indie rock, dopo anni in cui davamo la band per morta. Karen O e compagni non saranno al top della forma, per esempio ai livelli dell’esordio “Fever To Tell” (2003) o di “It’s Blitz” (2009), però “Cool It Down” è a pieno titolo un buon rientro nella scena musicale.

Voto finale: 8.

Sudan Archives, “Natural Brown Prom Queen”

Natural Brown Prom Queen

Il secondo CD dell’artista Brittney Parks, meglio nota col nome d’arte Sudan Archives, è un ottimo esempio di R&B alternativo. Brittney usa infatti basi molto elettroniche, che poco hanno a che spartire col pop, creando un insieme di composizioni coeso e, nei suoi momenti migliori, irresistibile.

La violinista e cantautrice si era fatta conoscere negli anni scorsi grazie ad EP di ottima fattura, come “Sudan Archives” (2017) e “Sink” (2018). L’esordio “Athena” del 2019 non aveva fatto altro che ribadire il grande talento della Nostra. “Natural Brown Prom Queen” rifinisce ulteriormente questo sound: va detto che, in questa nicchia di R&B, nessuna suona come lei.

Abbiamo infatti altri artisti, come Kelela e Steve Lacy, entrambi catalogabili come R&B alternativo e dotati di una propria identità, la prima più misteriosa e il secondo invece mainstream; nessuno dei due, tuttavia, suona come Sudan Archives. Merito di una continua voglia di sperimentare, con bassi potenti sempre in evidenza e canzoni polimorfe come OMG BRITT e ChevyS10, che sorprendono anche dopo ripetuti ascolti.

Anche testualmente, “Natural Brown Prom Queen” ricalca alcune tematiche care a Parks: l’empowerment (“I’m not average” ripete ossessivamente in NBPQ (Topless)), polemiche sulle differenze di trattamento tra ragazze nere e bianche (“Sometimes I think that if I was light-skinned then I would get into all the parties, win all the Grammys, make the boys happy”, sempre in NBPQ (Topless)).

Se vogliamo trovare un difetto a “Natural Brown Prom Queen”, è l’eccessiva lunghezza: alcune canzoni, soprattutto verso il finale (Flue, Homesick (Gorgeous & Arrogant)), sono evitabili e non aggiungono nulla al CD. D’altra parte, pezzi come Home Maker e Selfish Soul sono highlight assoluti e rendono questo lavoro imprescindibile per gli amanti della musica nera.

In conclusione, Sudan Archives si conferma artista di grande talento: Brittney Parks è un nome ancora poco noto, ma ha tutte le carte in regola per costruirsi una più che solida fanbase.

Voto finale: 8.

Suede, “Autofiction”

Autofiction

Il nuovo album dei britannici Suede, band un tempo simbolo del britpop assieme ai più noti Oasis e Blur, è un’iniezione di energia nella loro estetica: post-punk e rock alternativo fanno capolino più di una volta nel corso delle 11 canzoni che compongono “Autofiction”, rendendolo un CD tradizionale per molti, ma innovativo per i Suede. Non male, per un complesso sulla cresta dell’onda da trent’anni.

Il quarto album dopo la reunion del 2013 è uno dei migliori della loro produzione: compatto, con base ritmica in bella vista, la bella voce di Brett Anderson al meglio… In più mettiamoci melodie vincenti come She Still Leads Me On e 15 Again e abbiamo un quadro più che roseo. L’usuale attenzione all’estetica glam rock è affiancata, come già accennato, da generi più muscolari; sono proprio i brani più britpop, come That Boy On The Stage e Drive Myself Home, ad essere inferiori alla media. Tuttavia, i risultati restano complessivamente buoni.

I Suede si confermano quindi gruppo imprescindibile per la scena rock britannica: Anderson e compagni sono sopravvissuti a molti eventi potenzialmente devastanti nel loro passato, tra cui l’abbandono del primo chitarrista Bernard Butler negli anni ’90 e una prima spaccatura della band nei primi anni ’00. “Autofiction” è un documento di artisti al picco delle proprie capacità: forse non siamo ai livelli di “Suede” (1993) o “Dog Man Star” (1994), ma il CD resta davvero riuscito.

Voto finale: 8.

Alex G, “God Save The Animals”

God Save The Animals

Il decimo disco di inediti di Alex Giannascoli, tornato a chiamarsi Alex G dopo la breve parentesi col nickname (Sandy) Alex G, prosegue nel solco tracciato dai suoi CD più recenti, vale a dire “Rocket” (2017) e “House Of Sugar” (2019): un indie rock eccentrico, spesso virato sul folk à la Animal Collective (S.D.O.S). I risultati forse non raggiungono le vette dei suoi migliori lavori, ma “God Save The Animals” resta un buon disco indie.

Il titolo del CD può far pensare ad un inno ambientalista, forse contenente riferimenti al sacro. In realtà, come Alex ci ha abituato, “God Save The Animals” ha solo in parte gli animali e la natura al centro del palcoscenico. Troviamo infatti riferimenti più personali, ad esempio in Cross The Sea (“You can believe in me”) e in Ain’t It Easy (“Now you sit with me, I keep you safe”).

Le canzoni, dal canto loro, sono infarcite, spesso anche eccessivamente, di autotune: Alex Giannascoli non si era mai distinto per un uso di questo strumento, ma nel corso di “God Save The Animals” l’autotune diventa la maggiore innovazione nella palette sonora utilizzata dal Nostro. Si ascoltino ad esempio Cross The Sea e la danzereccia No Bitterness. I migliori pezzi sono Runner e Ain’t It Easy, mentre sotto la media restano S.D.O.S e Headroom Piano.

In conclusione, “God Save The Animals” conferma la fama di autore misterioso guadagnata da Alex G lungo una carriera accidentata e prolifica: i testi rimangono criptici, le melodie sguazzano nell’indie per poi virare improvvisamente verso folk ed elettronica… insomma, il lavoro non brilla per coerenza, ma prosegue con successo una carriera sempre più interessante.

Voto finale: 7,5.

Rina Sawayama, “Hold The Girl”

hold the girl

Il secondo CD della cantautrice anglo-giapponese riparte da dove l’interessante esordio “SAWAYAMA” (2020) era finito, con qualche aggiustamento stilistico. Se infatti quest’ultimo lavoro incrociava con successo metal e pop da classifica, “Hold The Girl” è decisamente meno sperimentale, cercando piuttosto dei punti di contatto con il pop-rock il rock alternativo à la Nine Inch Nails.

Questa svolta verso generi meno disparati rispetto all’esordio farà storcere il naso ai fan più ricercati di Rina; tuttavia, “Hold The Girl” non è un CD da buttare: brani come la title track e Frankenstein sono riusciti e faranno la fortuna di Sawayama dal vivo. Invece i pezzi più prevedibili, come Send My Love To John e Forgiveness, abbassano la media voto del lavoro.

Va detto, poi, che il cocktail sonoro di questo lavoro potrebbe essere troppo variegato per molti: pop à la Lady Gaga (Hold The Girl, This Hell), la trance di Holy (Til You Let Me Go) e i rimandi al rock alternativo di Your Age convivono nello stesso CD… come già in “SAWAYAMA”, la coesione non è il punto forte di Rina, tuttavia “Hold The Girl” non perde mai la bussola.

Il CD, anche liricamente, mescola molti temi cari alla Nostra: istanze femministe (“Fuck what they did to Britney, to Lady Di and Whitney” canta in This Hell), difesa delle minoranze (Frankenstein)…

Insomma, Rina Sawayama si conferma figura sicura di sé e pronta a spiccare il grande salto verso il pop mainstream: la qualità delle canzoni di “Hold The Girl” non sempre raggiunge i buonissimi livelli di “SAWAYAMA”, ma questo disco potrebbe essere un discreto punto di partenza per ulteriori mutazioni negli anni a venire.

Voto finale: 7,5.

Freddie Gibbs, “$oul $old $eparately”

soul sold separately

Il nuovo lavoro del prolifico rapper Freddie Gibbs è il suo primo vero tuffo nel mainstream. Con ospiti e produttori di spessore, che vanno da Raekwon a Pusha T, passando per James Blake e Anderson .Paak, Gibbs si apre a nuove influenze oltre al consueto gangsta rap che lo contraddistingue, dalla trap (Pain & Strife) al neo-soul (Feel No Pain). I risultati non saranno sempre ottimi, ma è da ammirare la volontà del Nostro di mettere in discussione la sua consolidata estetica.

Freddie Gibbs è un rapper molto conosciuto per le sue collaborazioni con The Alchemist e Madlib: i suoi migliori lavori sono infatti “Piñata” (2014) e “Bandana” (2019), senza dimenticare il recente “Alfredo” (2020). I suoi flow affilati, spesso basati su temi come la vita nelle strade e gli aneddoti di un passato fatto di droga e violenza, erano affidati a produttori veterani, che flirtavano col jazz e l’hip hop vecchia maniera. Pertanto, sentire tracce accessibili come Too Much è una ventata di aria fresca, anche se poi quest’ultima si rivela tra le più deboli del lavoro.

È vero, infatti, che i migliori pezzi del CD sono quelli che più si collegano al passato di Gibbs: l’iniziale Couldn’t Be Done e Rabbit Vision sono ottime. Invece sottotono Pain & Strife, malgrado la collaborazione di Offset dei Migos. Buone poi Gold Rings e Dark Hearted.

In generale, non sappiamo come interpretare “$oul $old $eparately”: se da un lato il titolo provocatorio farebbe pensare ad una prova destinata a non avere un seguito, la nuova direzione artistica potrebbe avere un payoff in futuro, se messa a fuoco coerentemente. Staremo a vedere; di certo “$oul $old $eparately” conferma il talento e mette in mostra la flessibilità di Freddie Gibbs.

Voto finale: 7,5.

Djo, “Decide”

DECIDE

Il secondo album del progetto Djo, capeggiato dal celebre attore Joe Keery (interprete di Steve Harrington nella serie Stranger Things), è un buon esempio di pop psichedelico. Traendo ispirazione a piene mani da Tame Impala (End Of Beginning, Change) e Daft Punk (I Want Your Video, Climax), “Decide” denota un certo talento per le composizioni veloci e orecchiabili, ma sulla lunga distanza c’è ancora da lavorare.

I 36 minuti di “Decide” scorrono in effetti senza scosse: pop orecchiabile, testi leggeri quando a volte risibili, la voce di Keery spesso trattata con vocoder e autotune… insomma, tutto molto moderno, diciamo che il CD suona come i Tame Impala intorno a “Currents” (2015), senza però le bordate di psichedelia di Kevin Parker.

Djo è chiaramente un progetto non primario nella carriera artistica a tutto tondo di Joe Keery: il personaggio di Steve Harrington gli ha dato meritatamente fama planetaria, la musica è solo un modo per farsi apprezzare ulteriormente. “Decide” dunque non va preso come un manifesto artistico, ma del resto nemmeno l’esordio “Twenty Twenty” (2019) lo era.

In generale, siamo di fronte ad un LP simpatico, nulla di più: pezzi come Half Life e On And On sono interessanti nella loro imprevedibilità, mentre altri come I Want Your Video e Runner sono un po’ monotoni. Inutile, infine, il brevissimo intermezzo Is That All It Takes. “Decide” è in ogni caso godibile e ci fa pensare che vedremo nei prossimi anni altri CD a firma Joe Keery… pardon, Djo.

Voto finale: 7.

Oliver Sim, “Hideous Bastard”

hideous bastard

L’esordio del frontman della celebre band britannica The xx, prodotto interamente dal fidato Jamie xx, è un album molto personale, in cui Sim confessa molti aspetti del suo passato e della sua vita passata che non conoscevamo. Non tutto fila a meraviglia, ma “Hideous Bastard” è un discreto inizio per la sua carriera solista.

Fin dai singoli di lancio avevamo intuito che il CD avrebbe avuto sonorità simili a quelle della band in cui Sim si è fatto le ossa: un pop oscuro, con la sua voce allo stesso tempo monotona ed espressiva a decantare il potere dell’amore tormentato (Hideous, Fruit). Se la sua omosessualità era cosa risaputa, nulla si sapeva invece del fatto che Oliver avesse convissuto con l’HIV dall’età di 17 anni: questo ed altro emerge da testi spesso davvero toccanti.

Ne sono esempi i seguenti versi: “I thought I could survive without letting anyone near… The moment I got that taste I felt naked and afraid” (Saccharine); “What would my father do? Do I take a bite of the fruit? I’ve heard other people say it can’t be right if it causes you shame” (Fruit). In generale, i temi trattati e il mood del disco rendono l’ascolto non sempre facile, però Sim fa di tutto per migliorare il quadro, grazie alla sua bella voce e alla produzione dell’amico Jamie xx.

I momenti migliori sono Sensitive Child, che flirta con l’elettronica, e l’iniziale Hideous; invece, meno riuscite sono Confident Man e Romance With A Memory. Interessante, infine, l’esperimento pop di Run The Credits.

In generale, “Hideous Bastard” è una buona introduzione ad Oliver Sim come cantante solista. Nessuna canzone cattura l’ascoltatore come i migliori momenti di “xx” (2009), il fantastico primo LP dell’omonimo gruppo, ma i risultati sono comunque accettabili.

Voto finale: 7.

Rising: Jockstrap

Jockstrap

I Jockstrap.

Il nuovo articolo della rubrica Rising si occupa dell’esordio dei Jockstrap, nuovo fenomeno della scena pop britannica più alternativa, che fondono pop, elettronica e sperimentalismo in un insieme davvero unico.

Jockstrap, “I Love You Jennifer B”

I love you Jennifer B

Il duo formato da Georgia Ellery (già parte dei Black Country, New Road) e Taylor Skye aveva già fatto intravedere le proprie qualità nell’EP “Wicked City” del 2020: un pop sbilenco, con forte produzione elettronica e momenti di sperimentalismo puro. I risultati erano davvero intriganti, ma “I Love You Jennifer B” ne rappresenta la versione riveduta e corretta e rende il CD imprescindibile per gli amanti di un certo tipo di musica, accessibile ma allo stesso tempo molto creativa.

Prendiamo due dei brani più riusciti del lavoro: se Glasgow è un ottimo brano pop, che potrebbe benissimo scalare le classifiche, Concrete Over Water è una lunga ballata di stampo art pop, sulla scia di Kate Bush. Abbiamo poi Lancaster Court, molto essenziale, ma anche Neon, che invece ha almeno quattro momenti diversi racchiusi nei suoi 225 secondi di durata. Il CD si conclude poi con una sorta di mini DJ set di musica techno e breakbeat, 50/50 – Extended Mix.

Sia chiaro, il disco potrebbe sembrare a tratti fin troppo variegato e incoerente, ma i Jockstrap riescono a mantenere una narrativa uniforme e “I Love You Jennifer B”, anche dopo ripetuti ascolti, non perde il suo fascino. Unico brano inferiore alla media infatti è Angst.

Liricamente, il CD si contraddistingue per versi spesso provocanti e ironici, come ad esempio il seguente, contenuto nella riuscita Greatest Hits: “Imagine I’m Madonna, imagine I’m Thee Madonna, dressed in blue… No, dressed in pink!”. Abbiamo poi frasi più apodittiche: “Grief is just love with nowhere to go” (Debra). In generale, i Jockstrap giocano con gli assunti più comuni della cultura pop, creando un insieme di canzoni magari non perfetto, ma certamente imprevedibile.

In conclusione, “I Love You Jennifer B” è uno dei migliori esordi del 2022: elettronica, pop e musica sperimentale si fondono a tratti perfettamente, rendendo il lavoro davvero affascinante. Sì, pare proprio che abbiamo trovato un volto tra i più brillanti della musica del futuro.

Voto finale: 8,5.

Recap: agosto 2022

Agosto, diversamente dalla tradizione, si è rivelato un mese abbastanza affollato per la scena musicale. Ad A-Rock abbiamo recensito i nuovi lavori dei Muse, degli Hot Chip, di Julia Jacklin e dei Kasabian; inoltre, spazio ai brevi EP a firma Julien Baker e Liam Gallagher e al ritorno di Ezra Furman. Infine, analizziamo il primo CD collaborativo di Panda Bear e Sonic Boom, così come quello tra Danger Mouse e Black Thought. Buona lettura!

Danger Mouse & Black Thought, “Cheat Codes”

cheat codes

Il primo LP di coppia fra Danger Mouse, produttore di primo piano, in passato collaboratore, tra gli altri, di Damon Albarn e The Black Keys, e Black Thought, membro del gruppo hip hop The Roots, è una gioia per i fan del rap di tendenza East Coast. Le basi sono infatti nostalgiche al punto giusto e gli ospiti, dai veterani come Raekwon e il compianto MF DOOM (presente con un verso postumo) ai più giovani Michael Kiwanuka e A$AP Rocky, senza tralasciare ovviamente i Run The Jewels, aggiungono ulteriore spessore ad un lavoro di ottima caratura.

I due avevano già provato in passato a trovare spazio nelle loro agende per una collaborazione a pieno titolo, col titolo provvisorio di “Dangerous Thoughts”; tuttavia, il progetto era stato messo in pausa per i successivi mesi, che sono poi diventati anni. Solo quest’anno il CD ha visto la luce, col titolo di “Cheat Codes”: i risultati, come già accennato, sono buoni e fanno del lavoro uno dei migliori dischi rap del 2022.

Le prime tracce che colpiscono l’ascoltatore, dopo l’inizio discreto ma convenzionale con Sometimes e la title track, sono The Darkest Part, con grande verso di Raekwon, e Because, la quale vanta ben tre featuring: Joey Bada$$, Russ e Dylan Cartlidge. Altre belle canzoni sono Aquamarine e Strangers, mentre sotto la media è Close To Famous. In generale, le composizioni scorrono bene e creano un insieme organico e coeso, che non risulta mai noioso.

In conclusione, “Cheat Codes” conferma il talento di entrambi i suoi principali autori e la potenza di una collaborazione ben piazzata: non stiamo parlando di un LP capace di reinventare la musica contemporanea, ma Danger Mouse e Black Thought hanno composto un CD di qualità e, pertanto, troveranno sicuramente posto nella lista dei migliori lavori dell’anno secondo A-Rock. Siamo piuttosto sicuri che non saremo gli unici a dargli spazio.

Voto finale: 8.

Julia Jacklin, “PRE PLEASURE”

pre pleasure

Il terzo CD della cantautrice australiana prosegue il percorso intrapreso col precedente “Crushing”, che l’aveva resa una delle voci più interessanti del nuovo cantautorato al femminile. Nulla di trascendentale, sia chiaro; semplicemente, un buonissimo disco indie rock.

Il titolo “PRE PLEASURE” può far pensare ad un lavoro molto intimo, che magari analizza il rapporto della Nostra con la sessualità. In realtà non è così: Julia, infatti, concentra la sua attenzione, come in passato, sul suo corpo e sulle relazioni, soprattutto quelle finite male. Se “Crushing” da questo punto di vista era stato davvero notevole, “PRE PLEASURE” non è da meno.

Tra i versi migliori abbiamo: “I quite like the person that I am… Am I gonna lose myself again?” (I Was Neon), a metà tra felice e inquieto. Inoltre menzioniamo: “I felt pretty in the shoes and the dress, confused by the rest… Could He hear me?” (Lydia Wears A Cross) e “I will feel adored tonight, ignore intrusive thoughts tonight, unlock every door in sight” (Magic), sensazioni che tutti abbiamo provato o desiderato almeno una volta.

Le liriche di “PRE PLEASURE” scorrono su canzoni semplici, a volte solo chitarra e voce (Less Of A Stranger) oppure più indie rock (I Was Neon), mai troppo carichi e sperimentali. Tuttavia, la già citata I Was Neon e Be Careful With Yourself sono highlight innegabili; meno convincenti Too In Love To Die e Less Of A Stranger, che spezzano eccessivamente il ritmo nella parte centrale del lavoro. Da non trascurare infine Lydia Wears A Cross ed End Of A Friendship, che aprono e chiudono perfettamente il disco.

In generale, Julia Jacklin si conferma cantautrice di talento e affidabile, ma priva al momento di quella scintilla che ha reso Phoebe Bridgers e Mitski delle eroine per il mondo indie. Vedremo se il futuro porterà Jacklin a sperimentare di più e, magari, a trovare quel capolavoro che sembra avere nel taschino.

Voto finale: 7,5.

Hot Chip, “Freakout/Release”

freakout release

Il nuovo CD degli inglesi Hot Chip, giunti ormai alla loro terza decade insieme, è un buon CD di musica elettronica. Partendo da una situazione drammatica, sia dal punto personale che da quello sociale, “Freakout/Release” riporta i britannici ai buoni livelli del precedente “A Bath Full Of Ecstasy” (2019).

Se il primo singolo di lancio Down poteva sembrare quasi scontato, fin troppo in linea col passato degli Hot Chip, gli altri due brani prescelti per promuovere il CD dimostravano ben altra stoffa: Eleanor usa un beat ballabilissimo, su cui Alexis Taylor (uno dei due frontman) parla degli effetti di una separazione dolorosa. Infine, Freakout/Release: siamo di fronte ad uno dei brani più carichi dell’intera produzione degli Hot Chip, quasi vicino alla techno, poco altro da aggiungere.

Va detto che abbiamo anche altri pezzi degni di nota: ad esempio, Broken e Time sono meritevoli di più di un ascolto. Inferiori alla media invece Hard To Be Funky e Guilty. Menzione, infine, per The Evil That Men Do, che presenta una sezione hip hop (!) nel finale.

Liricamente, Taylor e compagni sono più malinconici che mai: atteggiamento, come già detto, dovuto a circostanze personali (la morte dell’amico Philippe Zdar) e globali (la pandemia da Covid-19). I versi più significativi sono i seguenti: “Music used to be escape, now I can’t escape it” (la title track); “You can heal if you’re wounded, you can heal anytime” (Miss The Bliss); e “It holds me… I have no choice… All the rest is noise” (Not Alone). Emergono dunque segnali contrastanti, di depressione così come di ritrovato entusiasmo, sensazioni ben note a tutti noi passati per i lockdown pandemici.

In conclusione, “Freakout/Release” è probabilmente uno degli ultimi album propriamente pandemici, o almeno caratterizzabili come tali. Gli Hot Chip, dal canto loro, si confermano band consistente ed affidabile, incapace di comporre cattivi CD.

Voto finale: 7,5.

Ezra Furman, “All Of Us Flames”

all of us flames

Il nuovo lavoro della cantautrice americana si inserisce in una carriera di tutto rispetto: se il precedente “Twelve Nudes” (2019) era il CD più duro come sonorità della sua produzione, “All Of Us Flames” ricorda invece “Transangelic Exodus” (2018). Ad ogni modo, i risultati restano più che discreti.

Ezra Furman è una figura rispettata non solo per le sue qualità compositive, ma anche per la sua storia: il fatto di essere ebrea e transessuale allo stesso tempo, che in passato avrebbe portato discriminazioni a non finire, adesso la rende fiera. Prova ne siano alcuni riferimenti presenti in “All Of Us Flames”: “It’s not written in your Bibles, it’s a verse behind the verse only visible to an obsessive detail-oriented heathen Jew” canta, ad esempio, in Train Comes Through; mentre in Ally Sheedy In The Breakfast Club abbiamo una nota nostalgica a “the teenage girl I never got to be”. Altrove abbiamo testi più romantici (“You’ve got me in your arms… Maybe that’s all we need for warmth”, Forever In Sunset).

I migliori brani sono l’introduttiva Train Comes Through e Forever In Sunset, che ricorda il Bruce Springsteen di fine anni ’70. Inferiori alla media invece I Saw The Truth Underssing e Book Of Our Names, ma hanno il merito di mantenere coerente l’estetica del CD, pieno di riferimenti a PJ Harvey e alla scena rock anni ’00, soprattutto i Deerhunter.

In generale, Ezra Furman conferma il bene che si dice di lei ormai da una decina d’anni. “All Of Us Flames” non è un LP rivoluzionario, ma i suoi 47 minuti di durata scorrono bene e lo rendono ascoltabile da un vasto pubblico.

Voto finale: 7.

Panda Bear & Sonic Boom, “Reset”

reset

Il primo CD di Noah Lennox (Panda Bear), principale esponente degli Animal Collective, e Sonic Boom (Peter Kember), membro degli Spacemen 3, è in realtà derivato da una profonda stima reciproca che lega tra loro i due musicisti. I due, infatti, collaborano fin dai tempi di “Person Pitch” (2007), il bellissimo LP di Panda Bear, ma questa è la prima produzione in cui le canzoni sono scritte a quattro mani da Panda Bear e Sonic Boom.

“Reset” è un titolo azzeccato, dati i tempi grami in cui viviamo: servirebbe proprio un reset per ripartire, dopo anni contrassegnati da pandemia, guerre e tragedie legate al deterioramento ambientale. Le sonorità, peraltro, richiamano un’epoca più serena: gli anni ’60, quelli dei Beach Boys e del sunshine pop. Alla lunga la dolcezza dei risultati può quasi apparire stucchevole, ma nel complesso siamo di fronte a un buonissimo lavoro, forse il migliore di entrambi i musicisti dai tempi di “Panda Bear Meets The Grim Reaper” (2015).

“Reset” si caratterizza come una lunga suite di brani che spesso si mescolano uno nell’altro; vi sono episodi puramente psichedelici come Livin’ In The After ed Everyday, così come altri che virano sull’elettronica (In My Body, Whirlpool). In generale, però, è da premiare l’abilità dei due di creare un lavoro coeso ed estremamente godibile, con gli highlights di Gettin’ To The Point ed Everything’s Been Leading To This, che richiamano le migliori melodie di “Person Pitch” e “Merriweather Post Pavilion” (2009) degli Animal Collective. Delude un po’ solo In My Body.

Liricamente, come spesso accade nei lavori ricchi di sample tratti dal passato, i contenuti spesso sono indefiniti; tuttavia, in certi tratti Lennox e Kember lasciano trasparire qualche contenuto più calato nel presente. Ne sono esempi i seguenti versi: “One dude’s sweat is another’s balm” (Go On), forse un accenno allo sfruttamento capitalistico; e “Well times are tough and the draw is raw” (Everything’s Been Leading To This).

In conclusione, entrambi gli artisti coinvolti nella realizzazione di “Reset” hanno prodotto migliori CD in passato; allo stesso tempo, sentire nuovamente Panda Bear e Sonic Boom così liberi e sereni ci fa pensare che ci sia ancora qualcosa della vecchia magia da esplorare.

Voto finale: 7.

Julien Baker, “B-Sides”

b sides

Il breve EP “B-Sides” trae origine, dalle stesse sessioni di registrazione che hanno portato Julien Baker a pubblicare “Little Oblivions” nel 2021. I brani sono riusciti e sarebbero potuti benissimo entrare nella tracklist del CD principale, facendo di “B-Sides” un buon lavoro, seppur molto breve.

Il disco comincia con Guthrie, un pezzo molto intimista che sarebbe stato benissimo nell’esordio della Nostra, “Sprained Ankle” (2015). Abbiamo poi due pezzi più movimentati, caratterizzati da un indie rock convincente, Vanishing Point e Mental Math, che alzano il livello dell’EP e sono fra i migliori a firma Julien Baker.

Liricamente, la Baker si dimostra cantautrice tremendamente onesta nell’affrontare i suoi demoni e nel rendere il pubblico partecipe delle sue problematiche. In Guthrie mette in questione la propria fede: “Used to call upon the spirit, now I think heaven lets it ring… Wanted so bad to be good, but there’s no such thing”. Invece Mental Math parla di ricordi del passato da studente, inframmezzati da considerazioni più ampie: “Trying not to freak out, staring at the ground, doing math in my head, how far is it down?”.

In conclusione, “Little Oblivions” aveva confermato quanto di buono si diceva di Julien Baker; questo EP non fa che mettere nuovamente in luce il talento, compositivo e lirico, di una delle cantautrici più promettenti della sua generazione.

Voto finale: 7.

Liam Gallagher, “Diamond In The Dark”

diamond in the dark

Questo EP segue il successo dell’ultimo disco solista di R Kid, pubblicato pochi mesi fa. “C’MON YOU KNOW” non era il miglior lavoro a firma Liam Gallagher, ma faceva intravedere doti vocali e cantautorali ancora in buona forma e Diamond In The Dark, che dà il nome a questo EP, ne era uno dei migliori esempi.

Oltre a Diamond In The Dark, abbiamo in scaletta un remix del brano, a cura di DJ Premier, e una versione live del medesimo pezzo, presa dalla riedizione del concerto di Knebworth, la cui prima leggendaria edizione si tenne nel 1994 a firma Oasis. Infine, spazio alla b-side Bless You, che chiude abbastanza efficacemente un EP senza troppe pretese, ma non per questo mal riuscito.

Chiaramente non stiamo parlando di un prodotto imperdibile, ma i fan del più giovane dei fratelli Gallagher troveranno pane per i loro denti.

Voto finale: 6,5.

Muse, “Will Of The People”

will of the people

Il nono CD della band capitanata da Matt Bellamy è un mezzo fallimento. Se “Simulation Theory” (2018), pur con brani deboli come Dig Down, era un’innovazione pop nell’estetica dei Muse, “Will Of The People” è un mix di idee spesso sbagliate, che si rifanno al passato del gruppo e a quello della musica (soprattutto Queen e AC/DC).

Il primo singolo Won’t Stand Down aveva in realtà sollecitato attenzioni benevole: il sound metal del pezzo è una ventata di freschezza benvenuta in un LP altrimenti debole sotto molti punti di vista. Prova ne sia Compliance: un pasticcio pop piuttosto insopportabile. Prevedibile anche la ballata Ghosts (How I Can Move On).

Anche dal punto di vista testuale i Muse questa volta lasciano a desiderare: se in passato i Nostri erano stati in grado di scrivere convincenti inni di resistenza (Uprising) inseriti in concept album magari sovraccarichi di influenze, ma mai prevedibili (“The Resistance” del 2009), questa volta abbiamo canzoni radicali come la title track e Liberation, ma anche titoli come We Are Fucking Fucked… insomma, poco da salvare anche in questo ambito.

La cosa incredibile è che, malgrado queste evidenti lacune, il CD è in qualche modo salvabile: Bellamy è sempre convincente come cantante e regge quasi da solo pezzi come Verona e Liberation, mentre la base ritmica di Chris Wolstenholme e Dominic Howard brilla in Kill Or Be Killed ed Euphoria. Le migliori melodie di “Will Of The People” sono quindi Won’t Stand Down e Kill Or Be Killed, mentre molto deludenti sono Compliance e You Make Me Feel Like It’s Halloween.

Pare purtroppo che i Muse abbiano perso quella furia, unita all’attenzione per i giusti ganci pop, che hanno reso la tripletta “Origin Of Symmetry” (2001) -“Absolution” (2003) -“Black Holes And Revelations” (2006) dischi imperdibili nei primi anni ’00. “Will Of The People” è indiscutibilmente il più brutto LP della loro produzione e fa nascere cattivi pensieri sul futuro della band.

Voto finale: 5.

Kasabian, “The Alchemist’s Euphoria”

The Alchemists Euphoria

I Kasabian hanno attraversato tempi molto difficili recentemente: nel 2020, in piena pandemia, il frontman del gruppo Tom Meighan è stato arrestato per aver picchiato la fidanzata, reato di cui poi si è dichiarato colpevole. Il gruppo non ha potuto far altro che espellerlo, con tutte le conseguenze del caso.

Questo “The Alchemist’s Euphoria” è quindi una sorta di nuovo inizio per la band, autrice di successi dei primi anni ’00 come Club Foot e Fire… tutto questo, però, è ormai un ricordo. Va detto che, anche nelle ultime uscite con Meighan, il complesso britannico non era apparso in grande forma: sia “48:13” (2014) che “For Crying Out Loud” (2017) erano infatti CD poco lucidi ed ispirati, soprattutto il primo.

Purtroppo, anche “The Alchemist’s Euphoria” non fa molto per risollevare il destino dei Kasabian: Sergio Pizzorno alla voce non suona benissimo e molte canzoni sono eccessivamente influenzate da molteplici direttrici. House, hip hop, R&B… il CD è, come da titolo, un’alchimia, purtroppo mal riuscita. Prova ne siano ROCKET FUEL, ALYGATYR e STRICTLY OLD SKOOL.

Peccato, perché alcuni lampi restano discreti: l’iniziale ALCHEMIST non è male, così come T.U.E (the ultraview effect) e STARGAZR. Ma i momenti di sconforto sono maggiori di quelli positivi, circostanza che rende il pur coraggioso cambio di pelle operato dai Kasabian un buco nell’acqua. Spiace ammetterlo, ma il destino della band pare segnato.

Voto finale: 5.