L’estate è arrivata e i tormentoni imperversano ovunque. Noi di A-Rock però rimaniamo professionali e, come di consueto, offriamo una nostra sintesi del mese appena trascorso. Luglio è stato caratterizzato dal ritorno dei Dirty Projectors e di Laurel Halo; dall’atteso secondo album delle Let’s Eat Grandma; e dalla nuova collaborazione fra Ty Segall e White Fence.
Let’s Eat Grandma, “I’m All Ears”
Il secondo, attesissimo CD delle giovani inglesi Rosa Walton e Jenny Hollingworth, in arte Let’s Eat Grandma, ha pienamente mantenuto le promesse: aiutate da produttori rinomati come Sophie Xeon e Faris Badwan, le due teenager (!) pubblicano un disco in molti tratti rivoluzionario, che fonde generi disparati come pop, psichedelia ed elettronica in un connubio spesso eccellente.
L’apertura già instrada magistralmente il lavoro: sia Whitewater che Hot Pink (quest’ultima vanta la produzione di Badwan e Xeon) sono stranianti, in particolare la seconda alterna ritmi pop e improvvise aperture industrial, che non per caso ricordano gli ultimi lavori di SOPHIE e Horrors. I brani riusciti non finiscono qui: Falling Into Me è un gioiello pop, che ricorda la miglior Lorde; le lunghissime Donnie Darko e Cool & Collected suggellano il CD. Le uniche pecche sono i due inutili intermezzi Missed Call (1) e The Cat’s Pijamas, ma non intaccano troppo la struttura del lavoro.
I testi affrontano con sagacia la condizione di molti teenager negli anni dei primi amori e della scoperta della propria sessualità: le due giovani artiste in Hot Pink cantano infatti “I’m just an object of disdain to you… I’m only 17, I don’t know what you mean”, il ritornello contiene un riferimento non solo velatamente sessuale: “Hot Pink! Is it mine, is it?”. Sono poi presenti riferimenti macabri, non inattesi da un gruppo che incita a mangiare un parente, in Falling Into Me: “I paved the backstreets with the mist of my brain. I crossed the gap between the platform and train”.
In conclusione, se il debutto “I, Gemini” del 2016 suonava inevitabilmente ingenuo in certi tratti e le voci della Walton e della Hollingworth ancora acerbe, “I’m All Ears” segna il primo vero LP degno di nota a firma Let’s Eat Grandma. Speriamo che sia solo l’inizio di una carriera di successo: le premesse sembrano esserci tutte.
Voto finale: 8.
Laurel Halo, “Raw Silk Uncut Wood”
A seguito del successo del precedente lavoro, quel “Dust” pubblicato l’anno scorso dove era riuscita a proporre una convincente sintesi di tutte le sonorità che aveva affrontato nella sua ormai quasi decennale carriera, Laurel Halo ha pubblicato questo mini album di 32 minuti, composto da sole sei canzoni. Non è ben chiaro se “Raw Silk Uncut Wood” sia classificabile come EP o CD, certo è che rientra di diritto fra i migliori dischi di musica ambient degli ultimi anni.
Questa svolta verso la musica d’ambiente può apparire strana a primo acchito, dato che, come già anticipato in precedenza, “Dust” era stato un ottimo disco di musica techno/dance. Tuttavia, chi conosce la Halo sa che lei è un’artista sempre pronta a rinnovarsi ad ogni nuovo CD, dunque un cambiamento anche radicale era preventivabile. Allo stesso tempo, però, la struttura perfetta dell’EP e la maturità con cui Laurel compone brani che guardano anche al jazz sono fattori non trascurabili.
All’inizio e alla fine del lavoro, infatti, sono poste due suite di oltre 10 minuti di durata, la title track e Nahbarkeit, due pezzi molto ambiziosi che ricordano Gas. In mezzo, invece, abbiamo quattro melodie più brevi e a tratti frammentarie: sembra quasi di percorrere un viaggio immaginario, dapprima calmo poi tumultuoso poi di nuovo sereno. I pezzi migliori sono Raw Silk Uncut Wood e Nahbarkeit; non pienamente a fuoco Quietude, ma resta comunque un esperimento apprezzabile.
In conclusione, “Raw Silk Uncut Wood” marca un’altra tappa cruciale nella maturazione di questa artista, che sta diventando ad ogni uscita sempre più rilevante per la scena della musica elettronica mondiale. Brava, Laurel Halo: vorremmo che il mondo avesse più artisti visionari come te.
Voto finale: 7,5.
Dirty Projectors, “Lamp Lit Prose”
La storia dei Dirty Projectors sembra sempre più poter essere divisa in due: con Amber Coffman e senza Amber Coffman. Ricordiamo infatti che il sodalizio (e la relazione amorosa) fra la cantautrice e David Longstreth si sono interrotti nel 2016: da quel momento il solo Longstreth è rimasto nei Dirty Projectors. Non è un caso che “Dirty Projectors” (2017) sia il disco più cupo della carriera del gruppo, tutto incentrato sulla rottura fra le due anime della band. Al contrario, questo “Lamp Lit Prose” è forse il più solare e pop fra i dischi a firma Longstreth: aiutato anche da ospiti di grande spessore, infatti, David crea melodie sempre orecchiabili e lascia da parte le sperimentazioni barocche del passato.
Right Now è perfetta in apertura per settare il mood del disco, ulteriormente chiarito da Break Thru, in realtà uno dei pezzi più deboli del progetto. In altre parti, tuttavia, “Lamp Lit Prose” brilla di luce propria: Feel Energy e I Found It In U sono fra i pezzi più melodici e gradevoli al primo ascolto dei Dirty Projectors. Dicevamo poi dei numerosi ospiti presenti nel disco: da Rostam Batmanglij a Syd, passando per Amber Mark e Empress Of, tutti danno un loro contributo che aiuta il disco, pur breve, a decollare.
Liricamente, Longstreth è meno ermetico del solito, forse ancora sotto shock a causa della rottura con la Coffman, tanto che dichiara in Right Now “There was silence in my heart, but now I’m striking up the band”, segno che si possono superare molti lutti nella vita grazie alle proprie passioni. Vi sono anche riferimenti alla politica qua e là (“The sky has darkened, Earth turned to hell”), ma la coppia di versi più bella è presente in I Found It In U: “I’m in love for the first time ever…All the painful dreams I failed to extinguish were the footlights down dark aisles I’ve taken. Now they’ve led me to you”. Un messaggio di rinnovato ottimismo e segno che David ha ritrovato l’amore.
Non tutto è perfetto in “Lamp Lit Prose” a partire dall’eccessiva brevità del disco (soli 36 minuti e 9 canzoni), ma ciò favorisce la coesione e la benvenuta assenza di momenti piatti. Possiamo però dire che questo LP e “Dirty Projectors” sono sullo stesso livello, pur affrontando generi totalmente agli antipodi: diciamo che se Longstreth avesse ricavato un solo CD dalla rottura con la Coffman avremmo avuto un altro classico dei Dirty Projectors, accanto a “Bitte Orca” (2009) e “Swing Lo Magellan” (2012). Ma del resto al cuore (e all’ispirazione) non si comanda; è quindi benvenuto questo “Lamp Lit Prose”, ennesima buona prova di un artista che non ha paura di rinnovarsi ad ogni uscita.
Voto finale: 7,5.
Ty Segall & White Fence, “Joy”
Era nell’aria che un’altra collaborazione fra Tim Presley (aka White Fence) e Ty Segall ci sarebbe stata: troppo affini sono infatti due fra le figure più iperattive del rock contemporaneo. Basti dire che entrambi hanno già pubblicato un CD quest’anno e che il fatto di pubblicare due o più album di inediti in pochi mesi non è una novità per nessuno dei due.
Perché diciamo “un’altra collaborazione”? White Fence e Ty Segall, in effetti, hanno già prodotto un disco congiunto, “Hair”, nel 2012: un disco pieno di riferimenti al rock anni’60, con inserti psichedelici sempre imprevedibili. “Joy” ripercorre la traiettoria di “Hair”, con ancor più spirito libero e frammentarietà: basti dire che il CD è composto da 15 canzoni, ma dura solamente 31 minuti e si passa da canzoni che durano 16 secondi (Prettiest Dog) a tracce oltre i 5 minuti (She Is Gold). Insomma, un caos totale!
La copertina dell’album farebbe pensare a due nemici di un film comico o di animazione: uno biondo, l’altro moro; Ty amante dei cani, Tim dei gatti. Al contrario, l’intesa fra i due è totale: lo si nota dall’intrecciarsi perfetto delle chitarre e delle voci. I pezzi migliori sono Body Behavior, molto energica; i due pezzi molto beatlesiani Good Boy e My Friend; e A Nod. Da sottolineare, come già detto, lo spirito di totale libertà creativa del disco: in Other Way udiamo distintamente i latrati di Fanny, la cagnolina di Ty (sì, quella di Fanny Dog); abbiamo poi tre pezzi che non arrivano al minuto di durata.
Nei suoi momenti migliori, il CD rientra di diritto nella parte alta della produzione di entrambi i cantanti; tuttavia, l’eccessiva frammentarietà della struttura dell’album e le canzoni a volte solo abbozzate lo rendono difficilmente gradito a chi non è già fan di Tim o Ty. In questo ultimo caso, tuttavia, “Joy” sarà probabilmente l’album dell’anno. Prendere o lasciare: un ascolto, almeno uno, è decisamente consigliato.
Voto finale: 7.